Un 61 a 0 che dice tanto: U20 cartina al tornasole del Movimento Italia?

Si dice che i numeri non mentono: da quando esiste il Sei Nazioni U20 l’Italia ha giocato 37 partite e ne ha vinte solo tre

ph. Sebastiano Pessina

ph. Sebastiano Pessina

C’è la partita di Twickenham, con tutto quello che si tira dietro. C’è l’aspettativa pe il Mondiale e la corsa con (parecchi) ostacoli, almeno per noi italiani, nella Guinness Pro12. Ci sono poi gli attacchi del Times.
Poi però c’è quel risultato che è probabilmente il più importante di tutto il fine settimana. Quel 61 a 0. Perché gli occhi e le attenzioni dei media ovali italiani, compreso anche questo sito, seguono con grande attenzione la nazionale maggiore, il torneo celtico e l’Eccellenza. Il resto, inevitabilmente, passa un po’ in secondo piano ma se volessimo essere i più scientifici possibile il vero punto d’equilibrio, la cartina al tornasole del nostro movimento non sta nel Pro12, nel Sei Nazioni/Test-match/Mondiali o nel nostro massimo campionato nazionale, ma sta nella nazionale U20. Una squadra che ci dice chi siamo oggi e chi con ogni probabilità saremo domani e che grazie al raffronto con le altre realtà della stessa categoria ci dice quale sia la capacità del rugby italiano di produrre giocatori e soprattutto di quale livello. L’abilità di inserirli nell’alto professionismo, con quale velocità. E la situazione la conosciamo tutti.

 

Il punto non è che si perde 61 a 0 contro l’Inghilterra, non è solo quello almeno. E’ che un anno fa la Francia ci batteva 34 a 0, l’Irlanda 18 a 0 e l’Inghilterra 52 a 5. Nel 2013 gli inglesi ci rifilavano un 52 a 7 ma anche la Scozia ci regolava con un 30-17. L’anno prima era ancora l’Inghilterra a batterci con il risultato più ampio (7-42) con gli azzurrini che hanno preso il cuchiaio di legno. E così via.
Lo score storico dice che da quando esiste il Sei Nazioni U20 l’Italia ha giocato 37 partite, ne ha vinte tre (tutte contro la Scozia: 7-9 nel 2011, 14-13 nel 2008, la più larga per 32 a 13 un anno fa) e ne ha pareggiata una con l’Irlanda (25-25 nel 2013). I ko sono 33. In sei occasioni non ha fatto nemmeno un punto. La percentuale di sconfitte è di circa il 90%.
Il punto, quindi, è che si perde tanto, quasi sempre. E succede oggi e succedeva 5 anni fa e anche più. E questo vuol dire solo una cosa: che il movimento è fermo. Che la filiera non funziona. Che checché se ne dica la preparazione dei nostri ragazzi non è alla stessa altezza degli altri pari età. Lo dicono i numeri e i risultati raccolti nel corso degli anni, non lo dice OnRugby.
I nostri giocatori che oggi prendono 61 punti dall’Inghilterra sono gli stessi a cui chiederemo di ben figurare (in teoria dovrebbe essere: di vincere) nella RWC del 2019 in Giappone, magari contro gli stessi inglesi che oggi rifilano loro quel risultato. E’ plausibile? I miracoli possono anche capitare, ma non è su quelli che si possono costruire fondamenta solide e stabili, che possono dare risultati anche tra 15 o 20 anni.

 

Facciamo un altro esempio. Quanti sono oggi i giocatori nel gruppo della nazionale maggiore che 4 anni fa presero parte al Mondiale U20, quello giocato in Italia? Solo due: Palazzani e Morisi (chiamato per ricoprire il ruolo di mediano d’apertura). Qualcuno dirà: e Campagnaro? Sì, è vero, giocò anche lui, ma bisogna ricordare che il centro non era tra i convocati iniziali e che arrivò dopo l’infortunio di Morisi. Lo stesso dicasi per Leonardo Sarto, chiamato solo prima della semifinale dei play-out, al posto dell’infortunato Marco Gennari. In quella squadra c’era anche Fuser, che l’azzurro lo sta frequantando, anche se in maniera meno stabile degli altri tre.
L’Inghilterra? Aveva in gruppo Mako Vunipola, Joe Launchbury, Matt Kvesic, George Ford, Owen Farrell, Jonathan Joseph, Marland Yarde e Christian Wade.
Il Galles poteva contare su Eli Walker, Owen Williams, Matthew Morgan, Jonathan Evans, Rhodri Jones. Irlanda: Peter Du Toit, Craig Gilroy, JJ Hanrahan, Paddy Jackson, Michael Kearney, Kieran Marmion, Luke Marshall.
Infine tra Scozia e Francia contiamo Mark Bennett, Stuart Hogg, Duncan Weir, Jean Buttin, Jules Plisson, Jean-Marc Doussain, Sebastien Vahaamahina, Sebastien Taofifenua.
Questo per rimanere ai partner del Sei Nazioni, perché se scorriamo i nomi dei Baby Blacks che sono stati schierati nella sola finale del torneo troviamo Ben Tameifuna, Steven Luatua, Brodie Rettalick, Sam Cane, Luke Whitelock, TJ Perenara, Gareth Anscombe, Charles Piutau, Francis Saili, Beauden Barrett e Dominic Bird.

 

Non è solo una questione di quantità dei giocatori, ma della loro preparazione fisico-tecnica, della velocità delle loro carriere, ovvero della capacità di entrare nell’Alto Livello. Di lasciare “la gioventù” e di entrare nel mondo dei grandi.
Come abbiamo scritto sabato mattina, prima della partita di Twickenham, noi ci siamo presentati in campo con Castrogiovanni, Bortolami, Parisse e Mauro Bergamasco che da soli avevano più caps di tutto il XV inglese titolare. Mettiamo le cose in chiaro: Castro, Bortolami, Parisse e BergaMauro meritano la convocazione e una maglia da titolare, ma il punto è proprio questo, ovvero che nessun giovane ha mai messo seriamente a rischio il loro posto. Non c’è concorrenza mentre tra i nostri partner europei bisogna lottare con le unghie e con i denti per avere una maglia. E di quei quattro azzurri citati oggi solo uno è giocatore di livello mondiale.
Quasi due anni fa il responsabile dell’area tecnica della FIR Franco Ascione in una intervista disse sostanzialmente che il gap tra l’Italia e gli altri arriva dopo i 20 anni. Quelle 33 sconfitte in 37 partite dicono altro, semmai è dopo i 20 anni che riusciamo a metterci una pezza.

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