Secondo appuntamento con “Giù il gettone”, la rubrica curata da Antonio Raimondi. Dove si parla di mete, muscoli e cervelli
Guardi il campionato inglese e subito intuisci che c’è qualcosa di nuovo e non riguarda le regole e il TMO Power (di cui abbiamo già parlato), ma piuttosto uno spirito differente, un ricambio d’aria, in quello che giustamente poteva essere considerato il campionato più difficile del mondo e anche il più chiuso, con quella, per dirla nel colorito gergo, che era una battaglia di topi.
Aperte le finestre, in tre giornate o per andare nel dettaglio in diciotto partite sono state segnate ottantatre mete, per una media di 4,6 a incontro. Si può dire che è solo l’inizio del torneo, che i campi sono ancora asciutti, ma rimane il fatto che sembra esserci una volontà da parte dei club (gli Harlequins campioni lo scorso anno l’avevano già mostrata) di giocare un rugby “entertainment” che più va incontro ai gusti del grande pubblico, quello che ormai con continuità affolla gli stadi più grandi di Londra: Twickenham e Wembley i più recenti. Un’aria nuova sicuramente gradita anche a chi come BT ha appena investito 150 milioni di sterline per acquisire i diritti televisivi delle squadre inglesi, anche se, come avete letto in questi giorni su onrugby.it, la questione è ancora aperta, alla voce coppe europee.
Sicuramente ai club è stata data una direzione, sicuramente non è solo una questione economica, nel senso che alla base di questo nuovo indirizzo, c’è un altro bene comune che è lo sviluppo del rugby inglese, in un quadriennio che porterà alla Coppa del Mondo ospitata dall’Inghilterra.
Qui veniamo agli aspetti più tecnici, dai quali possiamo trarre ispirazione anche per il nostro rugby. Il cambiamento di rotta viene da una valutazione generale sulle difficoltà affrontate dalla Nazionale inglese, al di là dei problemi comportamentali, nell’ultima RWC e dalla constatazione che sia nell’emisfero sud che nell’emisfero nord, le principali competizioni degli ultimi due anni, sono state vinte da squadre che hanno privilegiato il gioco d’attacco. Non significa che i campioni del mondo della Nuova Zelanda, quelli del Super XV 2011 e 2012 (Reds e Chiefs) e i campioni d’Europa di Leinster abbiano rinunciato alla difesa o alle fondamentali fasi di conquista. Il rugby sta cambiando, andando verso quel “rugby positivo” predicato da Graham Henry dopo il 2007. Al livello più alto non basta più un gioco ad una sola dimensione. Per essere competitivi occorre riprendere lo sviluppo della tecnica individuale (i famosi skills) e la capacità dei giocatori di prendere le decisioni sotto pressione (decision making).
Tornando al caso dell’Inghilterra, il gioco di combattimento per linee dirette, ha portato in nazionale giocatori di forza fisica, ma poi incapaci di reggere il confronto con il livello più alto: dal 2008 ad oggi l’Inghilterra contro Australia, Nuova Zelanda e Sudafrica ha vinto due partite (contro l’Australia) ne ha perse dodici e pareggiata una (Sudafrica). Per vincere la prossima Coppa del Mondo serviranno giocatori con skills e decision making, ma non solo, perché l’attitudine all’attacco, ad un rugby di corsa, richiede anche qualità fisiche differenti quali ad esempio una resistenza anaerobica superiore.
La rivoluzione, se così si può dire, e qui veniamo anche a casa nostra, è quella di sviluppare prima di tutto le abilità individuali, di esercitare i nostri ragazzi alla ricerca degli spazi e a giocare alla mano. Non è un discorso che vale solo per l’alto livello, per chi organizza la prossima Coppa del Mondo e vuole vincerla. Questo è l’orientamento che dobbiamo dare ai nostri mini-rugbisti, che deve andare a comporre una proposta formativa di qualità, che sappia sostenere il giocatore nella fase più critica della sua crescita, quella in cui, purtroppo, il nostro rugby dimostra la sua più grande debolezza.
Non conosciamo dati ufficiali, ma si può stimare oltre il cinquanta per cento gli abbandoni nella fascia d’età 14-19 anni. La rinuncia al rugby ha molto a che fare con le distrazioni che entrano nella vita dell’adolescente, ma molte responsabilità vanno addebitate a ciò che proponiamo ai ragazzi e alle loro famiglie. Vale la pena usare l’inglese: brain is better than brawn, per loro basta cambiare una lettera, per noi si tratta di usare il cervello invece che la forza fisica, anche nella selezione dei giovani giocatori, perché a quattordici anni (ma anche a sedici e così via) non puoi sentirti dire che non sei grande abbastanza, che non sei forte abbastanza. Vogliamo tutti vincere, ma quando parliamo dei nostri ragazzi, la vittoria non è vincere domenica prossima, ma dare a tutti la possibilità di migliorarsi, farli innamorare del nostro sport e quindi non perderli lungo la strada. Poi con giocatori migliori, si vince ugualmente.
di Antonio Raimondi
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