I Pumas sono visti – a ragione – come un esempio da seguire. Ma come funziona il loro “sistema”? Ce lo spiega Antonio Raimondi
Se avete tempo, scaricatevi il review 2011 dell’International Board, una guida importante per comprendere la direzione che l’organismo che regola il rugby mondiale vuole dare al nostro sport e anche il modo di finanziarne lo sviluppo. Tutto gira attorno alla Coppa del Mondo i cui profitti sostengono l’IRB e progetti. Per la federazione internazionale è strategico aumentare il numero di squadre che potenzialmente possono vincere la coppa e offrire un torneo più equilibrato. A tutto il 2011 soltanto quattro squadre hanno vinto la RWC: Australia, Nuova Zelanda e Sudafrica due volte, e Inghilterra una. In semifinale sono arrivate soltanto sette squadre nei 28 posti disponibili nelle sette edizione del torneo mondiale. Alle vincitrici si sono aggiunte Francia, Galles (1987 e 2011), Scozia (1991) e Argentina (2007). Il maggior equilibrio è considerato una delle chiavi per far continuar a crescere la terza più importante manifestazione sportiva mondiale.
Questa è la premessa necessaria, per collocare nello scenario politico, l’inserimento dell’Argentina nel Championship, che non è solo il frutto del terzo posto conquistato nella Coppa del Mondo del 2007. Con due giornate ancora da giocare, quelle in casa contro Nuova Zelanda e Australia, i Pumas hanno già lasciato il segno nel torneo più qualitativo del mondo, che mette in campo le prime tre del ranking mondiale. Il pareggio con il Sudafrica non è un risultato casuale, ma già il frutto di un lavoro che è iniziato all’indomani (se non prima) della RWC2007 e che ha mostrato altri risultati incoraggianti come il quarto posto conquistato dai pumitas ai mondiali under 20 di quest’anno. E’ solo l’inizio, i margini di progresso sono enormi, proporzionati alle nuove risorse a disposizione del rugby argentino e alla possibilità finalmente di confrontarsi costantemente con l’alto livello: pensate che tra il 2007 e il 2011 l’Argentina ha disputato soltanto ventiquattro test match, mentre il Sudafrica ne ha giocati il doppio e Australia e Nuova Zelanda cinquanta.
Dall’International Board sono arrivati soldi importanti, dieci milioni di dollari, per favorire l’inserimento dell’Argentina nel Championship, oltre una modifica regolamentare, per poter utilizzare i tanti giocatori impegnati con i club europei. Un lavoro politico che ha ottenuto risultati, grazie anche ad un ambasciatore importante come Augustin Pichot, che sembra aver rinforzato il ruolo di Hugo Porta, che in Sudafrica è stato ambasciatore per davvero. Lavoro non ancora finito, perché il prossimo obiettivo è una franchigia argentina da inserire nel Super Rugby.
I Pumas davanti a questi cambiamenti non perdono le proprie radici ed hanno scelto comunque un argentino, ex pumas, come Santiago Phelan per guidare la nazionale maggiore, ma si sono presi il meglio come consulente, ovvero il campione del mondo Graham Henry. Probabilmente è anche un fatto di cultura, perché spesso i Pumas hanno usato questo sistema, con il neozelandese Alex Wylie negli anni 90, e anche durante il regno del Tano Loffreda era integrato nello staff l’inglese Les Cusworth. Una scelta che con ogni probabilità accresce il senso di appartenenza e la “garra” componente decisiva nello sport di squadra argentino, riferendoci anche al calcio e al basket.
Ora la UAR può lavorare sulla base di oltre centomila praticanti ed ha varato il Plano de Alto Rendimiento (Pladar). I Pumas di oggi hanno alle spalle un gruppo di giocatori in crescita, secondo una struttura ben definita e che si sta consolidando. Dietro ai professionisti ci sono infatti i “becados”, giocatori che ricevono il sostegno economico e che costituiscono la base dei Juaguar (ex Argentina A) e dei Pampas XV, formazione che partecipa alla Vodacom Cup (l’ha vinta lo scorso anno) secondo campionato nazionale sudafricano. Inoltre ci sono i giovani, tra i 18 e i 20 anni, inseriti nei cinque centri regionali di formazione (Buenos Aires, Rosario, Córdoba, Tucumán e Mendoza), un totale di 200 giocatori che mantengono il legame con il proprio club, ricevendo sostegno nello sviluppo di programmi fisico, nutrizionali e appoggio medico. Tra gli appartenenti al Pladar sono stati selezionati i Pumitas che nell’ultima coppa del mondo under 20 hanno conquistato il quarto posto. A dirigere il progetto Francisco Rubio, allenatore che abbiamo conosciuto in Italia sia da giocatore negli anni novanta, che da allenatore, alla Capitolina in Super 10. Integrante del piano e selezionatore dei Pumitas un’altra conoscenza del rugby italiano, Rodolfo Ambrosio, che ha anche vestito la maglia della nazionale Italiana con l’onore di giocare la prima partita della storia della Coppa del Mondo contro la Nuova Zelanda nel 1987, ed ha allenato Petrarca e Segni. Nel piano di sviluppo va sottolineato come l’Argentina stia sfruttando anche l’occasione olimpica del rugby a sette, con un gruppo di 20 specialisti dedicati alla disciplina.
Fin qui, da osservatori esterni, abbiamo guardato alla struttura, un ben più ampio spazio meriterebbe l’analisi dei programmi (che fanno la differenza) seguiti dagli allenatori nella formazione sia dei giocatori che degli allenatori dei club, e in futuro sicuramente onrugby.it dedicherà spazio anche a questi. Quello che salta all’occhio è l’identità tecnica e il fatto di aver creato in quattro anni dei livelli, sotto i Pumas, che producono giocatori che hanno solo bisogno di aggiungere l’esperienza del livello più alto per completare la propria formazione. Non ci sono dei doppi o dei tripli gradini da salire in una sola volta ed ogni livello è in grado di “alimentare” con giocatori adeguati il livello superiore. Si badi bene, che questa trasformazione, non è stata comunque semplice e neppure priva di frizioni e polemiche, per un movimento che continua a considerare fondamentale la propria identità amatoriale, ma che sembra ora aver trovato l’equilibrio, per far continuare a vivere anche i club, anzi per integrarli nel progetto di crescita dell’alto livello.
di Antonio Raimondi
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