Un libro che è un’autobiografia, una storia, un’avventura umana. Ce lo racconta Marco Pastonesi
Lui, esultante: “Papà, mi hanno convocato in Nazionale”. Il papà, imperturbabile: “E il forno?”. Non è vero che i migliori atleti da allenare siano gli orfani, come sosteneva uno scienziato dello sport, pensando all’invadenza dei genitori. I migliori atleti da allenare sono quelli che hanno un papà come Donato Daldoss: uno che fa il classico, inteso come liceo, poi fa il pastore, inteso non come predicatore di pecorelle smarrite ma come custode di pecore da lana e da latte (non cinque pecore, ma cinquemila), e poi riorganizza la propria vita intorno a un forno, e intorno c’è anche la sua famiglia, la moglie, che è una santa, una figlia, che capisce l’antifona e si rende indipendente, e poi un figlio, Donato, che sotto la pelle ha lo sport. Un po’ di tutto, dal calcio al tennis. Ed essendo camuno di Borno, anche lo sci.
Un giorno il papà gli dice “domani andiamo a sciare”, all’alba lo sveglia accarezzandolo con una manciata di neve, fuori è un paesaggio magicamente bianco, neve dovunque, poi salgono sul camioncino, arrivano ai piedi di quello che solitamente è un pratone e adesso è un panettone, il papà gli dice “gli sci si mettono così, vai su a scaletta così, e quando sei su vieni giù”. Come?, gli chiede Donato. “Così”, gli risponde il papà, mostrando una posizione a spazzaneve. Il papà sale e scende, Donato sale, poi si guarda intorno, respira quel paesaggio, e quel panorama, e quella solitudine che solo la montagna sa regalare nel momento in cui la vita si risveglia, infine scende. “Visto?”, gli fa il papà. Poi risalgono sul camioncino e il papà porta Donato direttamente a scuola. E il bello è che Donato, a sciare, non ha né giacca a vento né guanti. “Quella – è la teoria del papà – è roba adatta solo ai malati”.
Poi Donato diventa rugbista, seconda e terza centro, nel Brescia e in Nazionale, un anno anche nell’Asr Milano, allora sponsorizzato Maa, poche partite prima d’infortunarsi a un ginocchio maledetto. Poche partite (la prima in seconda squadra per dimostrare di avere qualità, come gli chiede Lino Maffi, il tecnico dei milanesi), ma sufficienti per lasciare ricordi di spogliatoio, testimonianze di gioco, squarci di umanità, e un legame che trent’anni dopo non si sono estinti o esauriti.
Donato Daldoss ha scritto un libro su di sé: la cantina e lo sci, la scuola da studente e da insegnante (di educazione fisica), il rugby da giocatore e da allenatore (a Brescia e a Calvisano), da sindaco (a Casalbuttano) e da benefattore (il ricavato della vendita di questo libro va a un’organizzazione umanitaria nel Benin, in Africa). Il libro s’intitola “Campioni forse si nasce…”, 82 pagine e 10 euro (per informazioni e acquisti www.bresciabenin.it), nato non per caso ma con coincidenze, quello che si siede accanto ed è un tipografo, quello che ti telefona ed è uno che te ne compra subito mille copie, il vecchio compagno di squadra che riesce a far avere il patrocinio della Federazione italiana rugby. E’ una storia, un racconto, un romanzo, una cronaca, un esame di coscienza, soprattutto la conferma che il rugby crea uomini e famiglie, e l’albero genealogico diventa macchia mediterranea, bosco alpino, foresta amazzonica. E se proprio vogliamo ridurre la carriera di Daldoss soltanto a cifre: sei “caps” con l’Italia di Pierre Villepreux, con tanto di meta. Più di quello che si è riusciti a mettere insieme la sera in cui Donato è stato, a Milano, in quel tempio del rugby che è l’elettrauto di Cabrio, l’amico donato e ritrovato. E il forno? Quella volta il papà gli intima: “Se esci da quella porta, non torni più”. Poi è la mamma a sistemare la faccenda. Perché i migliori atleti da allenare sono quelli che hanno non solo un papà, ma anche una mamma come Donato Daldoss.
di Marco Pastonesi
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