Il segreto degli All Blacks? Strutture, qualità e una questione di continuità

Nuovo appuntamento con Antonio Raimondi. Che ci dice che il successo del “sistema” neozelandese non sta solo nelle strutture

ph. Nigle Marple/Action Images

Con una giornata di anticipo gli All Blacks hanno conquistato il Rugby Championship: cinque partite, cinque vittorie, primo punto di bonus la scorsa settimana contro l’Argentina. Sono i campioni del mondo, ma si confermano anche come i più forti, di gran lunga i primi del ranking mondiale con 92.43 punti e oltre un anno d’imbattibilità (quindici vittorie consecutive). Niente di nuovo quindi, ma vale comunque la pena guardare al modello All Blacks, che poggia sulla base di “soli” 146.000 giocatori. Un successo che nei numeri appare paradossale, perché stando ai dati ufficiali dell’International Board l’Inghilterra può contare su oltre 1.990.000 giocatori e la Francia su oltre 360.000.

In questi giorni stiamo seguendo su onrugby.it il viaggio di Melita Martorana nelle realtà neozelandesi che ci fa capire la struttura del rugby di quelle parti. Quando guardiamo a organizzazioni di altri paesi, dovremmo sempre tenere conto dello scenario globale, in altre parole del territorio, densità della popolazione, città grandi e piccole, la storia e lo sviluppo del rugby, la cultura e così via. Ciò che funziona in Galles potrebbe non funzionare in Irlanda, ciò che va bene in Scozia, potrebbe non andare bene in Inghilterra. Purtroppo però spesso ci concentriamo sulle strutture, sulla formula magica, e ci dimentichiamo che ciò che fa la differenza sono programmi e gli uomini che li applicano. Pensate a quante volte avete (abbiamo) discusso di come dovrebbe essere il nostro rugby e vi siete ritrovati a parlare della formula del campionato. I risultati dicono che i neozelandesi hanno i migliori programmi formativi del mondo che permettono di sottolineare ancora una volta come la qualità sia più importante della quantità.

E’ un discorso che ci porterebbe lontano, sicuramente oggetto di studio per chi da noi vuole lavorare con serietà nella formazione dei giovani giocatori. Sappiamo di correre il rischio di parlarci addosso, ma la nostra speranza è di essere stimolo e strumento per la circolazione delle buone idee, che ci sono in Italia, ne abbiamo avuta la conferma con il vostro contributo negli scorsi Giù il gettone.

C’è però un altro aspetto su cui possiamo ed è interessante concentrarsi, partendo dal successo degli All Blacks: l’importanza della continuità. L’ha sottolineato Graham Henry nel momento in cui ha abbandonato da campione del mondo il suo ruolo di capo allenatore dei tutti neri. Non è un caso la presa di posizione di Henry, perché il successo nella RWC 2011 è frutto della continuità e anche della sofferenza, poiché Henry con il suo staff fu confermato, dopo la clamorosa eliminazione dalla Coppa del Mondo del 2007. La federazione neozelandese arrivò a quella decisione, dopo un’inchiesta affidata a un organismo indipendente che valutò e analizzò i motivi del fallimento della spedizione francese. Analogamente la federazione inglese, senza bisogno di un elemento di analisi così complesso, aveva puntato sulla continuità, lasciando al suo posto Clive Woodward, nonostante l’eliminazione, guarda caso ai quarti di finale, nella Coppa del Mondo del 1999. Una continuità che ha poi permesso all’Inghilterra di conquistare la RWC 2003, unico successo di una squadra dell’emisfero nord.

Il ragionamento di Henry è abbastanza semplice e comprensibile: perdere la continuità, significa gettare una gran parte del lavoro fatto e consumare tempo nella ricerca di nuovi equilibri. Negli All Blacks di oggi Hansen conta su altri 10 che facevano parte del management dell’ultima RWC. Questo, permette di conoscere il lavoro che è stato fatto e le cose che devono essere ulteriormente migliorate. E’ una riflessione che può essere utile anche da noi, riferendoci ai nostri club, dal livello più alto a quello più basso. Guardando alla realtà italiana di maggior successo, la continuità è uno dei tratti distintivi del Benetton Treviso. Continuità che nel caso specifico significa condivisione dell’etica del club, legata fortemente a quello che gli anglosassoni chiamano work ethic. Tratto che ritroviamo in tutte le realtà vincenti dello sport professionistico. Franco Smith è stato giocatore e ora è allenatore del Benetton, per citare l’uomo più in vista, ma attorno al concetto di “uomini club” possiamo mettere uno come Giorgio Intoppa, arrivato da giocatore a Treviso e passato al ruolo di preparatore atletico a ventinove anni, mettendo a frutto la laurea in scienze motorie conseguita a Brescia.

Esempi che troviamo in altre realtà vincenti. A Leicester dove il professionismo si sposa con il concetto di club famiglia: Cockerill è prima stato giocatore e oggi è allenatore e conosce tutto ciò che è prioritario nel club. Allo Stade Toulouisanne Guy Noves è l’allenatore-manager dal 1993, dopo essere stato giocatore. Tutto questo ha a che fare con l’identità di un club, che ha regole e modelli di comportamento, che sono più facilmente riconoscibili ed essere indossati, come una seconda pelle, anche da chi arriva da fuori e vuole far parte del clan, della famiglia, del club. Come in una mischia nella quale la forza e la potenza sono date dalla spinta all’unisono degli otto, in un club fatto di persone, bisogna aver chiaro e condividere qual è la direzione, qual è il progetto, quali sono le azioni da fare, cosa è prioritario. Non ci si deve trincerare dietro la mancanza di risorse, perché non è solo una questione di soldi, l’importante è sapere dove si deve spendere il solo euro che si ha a disposizione, piuttosto che sprecarlo.

Tornando agli All Blacks e al loro successo nel Rugby Championship si può spiegare anche con la continuità di gestione. Poche modifiche nel management, linea di comando in campo che funziona ancora attraverso giocatori come Richie McCaw, Dan Carter, Tony Woodcock, Kieran Read, Conrad Smith e i nuovi che hanno solo il peso di giocare come sanno, come hanno imparato, cercando spazi e velocità, fin da quando erano bambini. L’Australia fatica sia per colpa degli infortuni, ma anche perché ha smarrito il senso del “bene comune” tra giocatori, allenatori e federazione, mentre il Sudafrica ha cambiato tutto, o quasi, e come sostiene Henry, ci vogliono diciotto mesi per riorganizzare tutto, trovare i nuovi equilibri. Tradotto, in un quadriennio mondiale, ti rimangono solo due anni per costruire la sfida per la RWC. Per l’Argentina è tutto nuovo, è tutto una festa, e aver avuto ricevuto dagli All Blacks il trattamento “Kapo o Pango” è come aver ricevuto il Nobel per il rugby.

 

di Antonio Raimondi

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