La nuova maglia degli All Blacks ha fatto gridare allo scandalo i puristi. Ma il movimento per crescere ha bisogno di risorse
Da oggi onrugby.it schiera un nuovo collaboratore e inaugura una rubrica dedicata allo sport marketing e alla comunicazione. A firmarla è Gian Andrea Cerone, savonese classe 1964, milanese d’adozione. Gian Andrea vanta una lunga esperienza nell’ambito della comunicazione, dell’editoria e del marketing sportivo, settori nei quali ha rivestito importanti responsabilità in Italia e all’estero.
Manager e Consultant per la gestione dei diritti d’immagine di società e grandi sportivi, fra i tanti incarichi è stato consigliere per le Relazioni Esterne presso Il Ministero dello Sviluppo Economico e Responsabile delle Relazioni Istituzionali presso EXPO 2015 S.p.A.
Per più di vent’anni ha praticato, nel ruolo di pilone sinistro, rugby a livello semiprofessionistico in varie squadre italiane e selezioni universitarie. Continua, in modo incondizionato e viscerale, ad amare il rugby che considera un vero e proprio “stile di vita”. Non perde mai una partita in televisione e, men che meno, l’occasione di aggiornarsi sulle novità tecniche e d’immagine del rugby, mondo in cui conta numerose frequentazioni professionali e profonde irrinunciabili amicizie. Il suo motto è: “chi nasce pilone, muore pilone”.
Il mio primo intervento prende spunto dalle reazioni sollevate dalla presentazione della nuova maglia degli All Blacks. Mi sono chiesto: com’è possibile che, seppur in buona fede, tanti commenti siano privi di una visione più ampia e di prospettiva e non contemplino (o addirittura in alcuni casi avversino) una modernizzazione del marketing del nostro amato rugby? Perché non sento nessuna analoga acrimonia nei confronti della costante modernizzazione e specializzazione dei materiali di gioco? Perché non percepisco una medesima resistenza alle innovazioni regolamentari o alle sperimentazioni mediche (ad esempio le nuove norme sulla concussion, amichevolmente condivise tutta l’estate con Vincenzo Ieracitano che mi aggiornava sulle decisioni del board internazionale di medici che le ha codificate e di cui fa parte)? Eppure sono tutti elementi di innovazione, pensati e messi in atto per migliorare il gioco, per mantenerlo al passo con i tempi. Tutti elementi che concorrono al successo del nostro sport, a diffonderlo, a farne un esempio sano, virtuoso emoderno anche nei confronti di sport meno nobili, soprattutto sul piano della trasparenza, come il calcio.
Fatto salvo che ciascuno è libero di pensarla a modo suo, è innegabile che per fare e per crescere servono le risorse e che per trovarle è necessario creare i presupposti, primi fra tutti acquisire credito e visibilità. Marketing e comunicazione sono vissuti da molti appassionati come una componente sacrilega, come una distorsione di un modus vivendi (e… iocandi) consolidato, come uno strumento tollerato ma non necessario. Eppure, come ben sa la gran parte dei dirigenti di società, con l’approssimarsi della stagione sportiva, tutti corrono a cercare gli sponsor (che è un concept ormai vetusto anche per gli addetti ai lavori) e a “pietire” l’aiuto del famoso benefattore di turno imperfettamente definito “qualcuno che dia una mano”. Non devono darci “una mano”, devono investire nel nostro sport perché devono essere motivati a farlo!
Non nego certo i piccoli passi, seppur ancora troppo incerti, che l’intero sistema rugbystico italiano ha fatto in questa direzione negli ultimi anni. Mi riferisco alla “non-cultura” del marketing e della comunicazione a tutti i livelli, dai giocatori ai dirigenti, trasversalmente, dai più vecchi sino ai più giovani. Permane un atteggiamento avverso e snobistico nei confronti di chi propone innovazioni, idee e progetti che leghino il nostro mondo alle aziende. Prima che proporre tecniche promozionali e progettare azioni di marketing da offrire alle società o alla Federazione bisognerebbe appunto lavorare “sul campo” per sensibilizzare chi pratica e ama il nostro sport sulla necessità vitale di un’apertura agli investimenti privati. Renderli consapevoli che dare spazio e visibilità a un marchio, a una linea di prodotti sulle maglie o in accostamento ai colori della propria squadra, non significa perdere terreno, non significa retrocedere alla trincea dei cinque metri della tradizione per non subire l’onta della meta da parte delle multinazionali di turno e arrendersi, così, al “sistema”.
Lavoriamo allora sulla cultura del marketing rugbistico! Anche in Italia, abbiamo esempi di straordinaria efficacia: primo tra tutti l’ormai storica e “sudata” simbiosi tra il brand Benetton e il territorio trevigiano, la squadra, il campo, la maglia e i risultati sportivi. Non mi dilungo in questa sede nel citare i consolidati esempi inglesi o francesi, gli eccessi australiani, la programmazione scientifica che applicano in Sudafrica, su cui magari torneremo in futuro. Oggi rimarco soltanto un fatto, ovvero che in tutto il mondo si deve rispettare, fuori dal campo, un arbitro inflessibile: la legge della domanda e dell’offerta. Tutti devono fare i conti con le proprie dimensioni e con le proprie aspettative. E su quelle mirare un lavoro meticoloso e attento. Nel mondo, a differenza di quanto accade ancora in Italia, lo fanno da tempo, senza tare mentali e culturali, senza demonizzare la supposta invadenza di chi, pretendendo un giusto e sacrosanto ritorno di visibilità, vuole investire e, così facendo, far vivere e prosperare il nostro sport.
di Gian Andrea Cerone
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