Regolamenti vecchi e critiche solo se conviene. Antonio Raimondi analizza uno dei grandi problemi del rugby moderno
Tra una settimana saremo concentrati su Novembre Mondiale, l’incrocio dei test match autunnali, che darà il ranking mondiale utilizzato per assegnare le teste di serie per il sorteggio della Rugby World Cup 2015. Nella settimana delle convocazioni, il dibattito ovale più acceso fuori dall’Italia, alimentato ancora di più dalle ultime scelte dei vari selezionatori nazionali, è stato sul “poach”. La traduzione va da bracconaggio a pesca di frodo, la sostanza non cambia. La polemica è stata aperta dal coach All Blacks Steve Hansen, dopo il pareggio 18 a 18 con l’Australia, nel recente terzo incontro di Bledisloe Cup. Gli australiani fanno pesca di frodo nei nostri vivai è la tesi del coach All Blacks. La risposta dei Wallabies è arrivata attraverso l’uscente CEO della federazione australiana John O’Neill e di questo ha già parlato Vittorio Munari nel suo Tinello della scorsa settimana.
Verrebbe da dire che facce! Chi è senza peccato scagli la prima pietra. Rischiamo di essere colpiti soltanto da pietre argentine o rumene. Hansen fa anche finta di essere smemorato, perché quando Brent Cockbain, fratello dell’internazionale australiano Matt, iniziò a giocare nel Galles, lui era commissario tecnico dei dragoni. I pensieri partono spesso da dove si tiene il portafoglio e Hansen si fa portavoce delle preoccupazioni della federazione neozelandese che fatica a tenere il passo economico dei club più ricchi d’Europa, rischiando così di perdere giocatori che in futuro potrebbero essere buoni per gli All Blacks. Questo timore è aumentato dall’allargamento a quindici squadre del Super Rugby e alla conseguente fame australiana di giocatori di livello. Il sistema neozelandese garantisce circa 180 posti da professionisti, da scegliersi tra i circa ventisettemila giocatori seniores. Chi non entra tra i 180 ha due scelte, aspettare a casa un contratto neozelandese (a livello medio basso non si parla di cifre straordinarie) o provare la fortuna all’estero.
E’ il caso di Mike Harris, il giocatore che con il suo piede non ha permesso agli All Blacks di Hansen di raggiungere il record di diciassette vittorie consecutive. Ignorato nel sistema di selezione delle franchigie neozelandesi, ha trovato posto ai Reds di Brisbane e quest’anno nell’Australia. Hansen tratta i giocatori neozelandesi come “cervelli in fuga”, ma se ci si togliesse la camicia dell’ipocrisia, si potrebbe accettare questa emigrazione di giocatori, come una conseguenza del professionismo e di un mondo in cui le distanze si sono ridotte e l’ambizione è di giocare al livello più alto possibile, là dove qualcuno mi offre l’occasione. Facile da accettare rimanendo nell’ambito di club, delle franchigie o province, fastidioso quando invece entrano in gioco le nazionali.
Inaccettabile, quando l’unione club-federazione, si badi bene, senza contravvenire a nessuna regola, va a pescare tra i talenti di nazioni piccole e povere. E’ l’allarme dato dal coach di Fiji Inoke Male che ha detto: “Se venite alle nostre finali dei campionati scolastici, troverete i talent scout di nazioni come Australia, Inghilterra e Nuova Zelanda che puntano ai nostri migliori prospetti”. Va detto che ultimamente anche l’Europa si è adeguata e prima gli inglesi e poi in francesi hanno iniziato a pescare nel Pacifico.
La conseguenza per Fiji e le altre deboli nazioni è di perdere per la propria nazionale i talenti migliori. Ad esempio Virimi Vakatawa fijano del Racing Metro è già eleggibile per la Francia ma per par condicio il pilone Mako Vunipola dei Saracens, pur essendo figlio di un ex capitano di Tonga, giocherà i prossimi test con l’Inghilterra, per non parlare di Manu Tuilagi, samoano ormai con la rosa sul petto. Il selezionatore, prima di fare le convocazioni, deve effettuare il censimento dei giocatori che sono all’estero e molti sono quelli che rifiutano la convocazione, in attesa di maturare l’eleggibilità in una nazione che potrebbe dargli un miglior ritorno economico.
Crescere in una nazione e giocare per la nazionale di un altro paese ormai è cosa comune. Ci sono molti casi e di natura differente. Tra gli ultimi quello del sudafricano Richardt Strauss, chiamato nell’Irlanda, che nel 2009 con la maglia dei Cheetahs ha giocato contro i British and Irish Lions e potrebbe addirittura andare in Australia proprio con la maglia dei Lions. In passato è già successo al neozelandese Riki Flutey che ha affrontato i Lions con Wellington nel 2005 per poi indossarne la maglia nel 2009 in Sudafrica. Richardt e Adrian Strauss, cugini e famosa staffetta nei Cheetahs di Super Rugby e Currie Cup, perché ambedue tallonatori, invece di passarsi il posto in squadra, la prossima volta potrebbero trovarsi uno contro l’altro in Irlanda – Sudafrica.
Noi in Italia, come tanti altri, abbiamo fatto la nostra parte con gli equiparati. Abbiamo approfittato, giustamente, di ciò che ci concede il regolamento, per rinforzare la nostra Nazionale. Riusciamo, però, ad avere un trattamento diverso per quei giocatori nati e cresciuti all’estero che hanno però il passaporto italiano. Possono giocare, giustamente in Nazionale, ma li trattiamo da cittadini di serie B, perché nei nostri campionati risultano stranieri. Ci trinceriamo dietro il fatto che non impediamo il tesseramento, ma ne limitiamo la possibilità di utilizzo. In pratica è la stessa cosa ed equivale a una limitazione del diritto di cittadinanza, che da noi è basato sullo ius sanguinis e non sull’essere di formazione italiana.
Dall’Italia alla realtà internazionale, il rischio è di veder sventolare, ovunque, come fossimo in un enorme supermercato, la bandiera della convenienza. Quindi gioco dove mi conviene di più. Giusto, addirittura condivisibile, poiché riguarda professionisti e sport professionistico. E’ un discorso valido se parliamo di realtà più o meno private come club, province e franchigie, e quindi di campionati nazionali o coppe internazionali. E’ invece assurdo, quando entriamo nel territorio delle nazionali. E’ davvero una pesca di frodo, quella che fanno le nazioni più ricche. E’ bracconaggio rugbistico che aumenta il divario tra le varie fasce e che quindi va contro uno degli obiettivi dell’International Board, quello appunto di aumentare la competitività nelle manifestazioni per selezioni nazionali.
Le regole sull’eleggibilità non funzionano più. Il mondo è cambiato e ora ha bisogno di una regolamentazione diversa, proprio per evitare i suddetti bracconaggio e pesca di frodo. Il diritto di cittadinanza non può essere limitato e così il diritto di giocare nella nazionale, quindi l’eleggibilità per “passaporto”, lo ius sanguinis non si estingue, non può e non deve essere messo in discussione. Altra cosa invece l’eleggibilità per residenza. Ad esempio uno straniero può ottenere la cittadinanza italiana per residenza dopo dieci anni, ma può mettere la maglia della nazionale dopo tre anni. Per evitare le distorsioni dell’attuale sistema, probabilmente l’Internationa Board dovrà mettere mano al regolamento e aumentare il periodo di residenza necessario per essere eleggibile: passare da tre a cinque anni, o sette anni come hanno iniziato a fare nel cricket. La Coppa del Mondo, le competizioni per Nazionali in genere, devono garantire il confronto tra le diverse “identità” culturali/rugbistiche. Per questo la credibilità delle stesse deve passare da nazionali formate da giocatori che rappresentano la “cultura” rugbistica del paese, quindi i criteri di eleggibilità dovrebbero difendere questo ideale e i sette anni di residenza possono essere una giusta misura.
di Antonio Raimondi
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