“’Oku ou ‘ofa ‘ia koe”, ‘Oku ke fu’u faka’ofo ofa ‘aupito”. Insomma, Tonga spiegata da Marco Pastonesi
Chissà da quanti anni erano lì a tuffarsi e nuotare, tuffarsi e prendere le onde, tuffarsi e poi prendere il sole, tuffarsi e poi prendere una noce di cocco. Da così tanti anni che quando James Cook, nazionalità inglese, professione rompicoglioni, titolo capitano, fu attratto da quelle spiagge, forse anche da alcune delle frequentatrici delle suddette spiagge, e scese a terra, loro avevano ormai la pelle nera neanche fossero negri.
Sperando di toglierselo dalle palle nel giro – massimo – di qualche giorno, i tuffatori-nuotatori-surfisti abbronzati si mostrarono gentili, cortesi, perfino affettuosi. Fu un errore. E un guaio. Cook battezzò quell’arcipelago “Friendly Islands”, le isole amichevoli, e da lui in poi è cominciato un viavai turistico-alberghiero che ha spezzato l’incantesimo di pacifica disoccupazione.
Oggi le Isole Tonga – 176, di cui una cinquantina, alla faccia del capitano Cook, ancora disabitate: saltando da un’isola all’altra, però bisogna essere atletici, si fanno 800 chilometri – sono celebri perché si trovano al 165° posto nella classifica dei mercati più sicuri per gli investimenti economici, al 12° posto nel ranking mondiale di rugby, al 6° come Paese più corrotto, al primo per il maggior numero di obesi, piloni compresi.
Le Tonga si chiamano Tonga e si pronunciano, a casa loro, Tona, Tonga-Tona significa Sud, perciò tongani è un modo pacifico (per via dell’oceano limitrofo e adiacente) per dire terroni. Oltre che sudisti e neri, sono grandi e grossi tanto da essere valutati al metro quadrato, guidano a sinistra neanche fossero inglesi, e parlano una lingua che, come adesso dimostreremo, s’impara al volo. Per esempio: “’Oku ou ‘ofa ‘ia koe” significa “ti amo”, “’Oku ke fu’u faka’ofo ofa ‘aupito” sta per “sei così bella” e “Ko e ha hono hingoa ‘o e me’a ko ‘eni?” è ovviamente la traduzione di “come si chiama?”.
Costretti da una coalizione di missionari e marinai a imparare a giocare a rugby (sempre meglio che seguire il catechismo ed erudirsi nell’America’s Cup), i tongani hanno cominciato a passarsi le noci di cocco e proseguito con i Gilbert e i Mitre.
Nel 1923, tanto per darsi un tono, hanno fondato anche la locale federazione, nel 1924 hanno disputato il primo match internazionale, contro i colleghi delle isole Figi, e vinto 9-6. Ci hanno preso gusto e in amichevole – si fa per dire, essendo tutti guerrieri: si riscaldano con una danza di guerra detta “Sipi Tau” – hanno giocato anche contro Western Samoa e i New Zealand Maori. Ma per il secondo “cap” hanno dovuto attendere 49 anni, forse perché non volevano perdere l’imbattibilità: era il 1973 quando hanno affrontato l’Australia a Sydney. Avevano ragione a non volere altri incontri ufficiali: infatti hanno perso, 30-12.
Da quel giorno si fanno chiamare Ikale Tahi, cioè Aquile di mare, indossano una maglia rossa come il Galles di Gareth Edwards, delle mete non gliene frega niente, a loro interessano solo i placcaggi, meglio se al collo, e pazienza, sono fatti così. Fin da piccoli, ammesso che possa esistere un tongano piccolo, sono cacciatori di coralli e di teste.
Il loro problema sul campo non è tecnico né tattico, ma linguistico. Però all’ultima Coppa del Mondo, quando finalmente hanno imparato a chiamarsi per nome e cognome, hanno randellato la Francia, e bisogna dire che l’impresa è stata festeggiata in tutto il resto del mondo, un po’ perché i tongani sono simpatici a tutti (provate a dire a un tongano che vi è antipatico) e un po’ perché i francesi non sono simpatici a nessuno.
di Marco Pastonesi
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