C’è chi urla la haka prima di fare l’amore, c’è chi prega divinità in calzoncini corti, c’è Tana Umaga. E poi c’è Marco Pastonesi…
C’è chi si chiede che fine abbia fatto la Vecchia Zelanda. C’è chi non capisce perché gli All Blacks abbiano adottato come simbolo la felce d’argento, e non d’oro, nel senso: ma quando sono arrivati secondi? E chi li ha battuti?
C’è chi, quando legge che la Nuova Zelanda sta dall’altra parte del mondo, immagina gli All Blacks, a casa loro, tutti a testa in giù. C’è chi sostiene che Richie McCaw sia la reincarnazione del Messia bianco e Tana Umaga del Messia nero, anche se c’è chi obietta che Tana Umaga sia più all black di Richie McCaw, e su questo – a pelle – nessuno gli può dare torto.
C’è chi prega Colin Meads, chi adora Piri Weepu, chi si fa il segno della croce recitando nel nome di Dan Carter, di Joe Rokocoko e di Ali Williams, chi confessa i suoi peccati a Graham Mourie. C’è chi, quando ha una giornata storta, si mette la maglia degli All Blacks per accrescere l’autostima e tirare almeno fino a sera.
C’è chi la sera torna a casa e annuncia di preparare una cenetta, ma invece di schiacciare il pulsante del forno a microonde, va in balcone o nel giardino condominiale, accende un fuoco su pietre e rocce e scava per terra un’area grande come un tavolo, e quando pietre e rocce sono ardenti introduce carne e verdure, separate da carta stagnola, e cuoce il tutto per cinque o sei ore, finché arriva un gruppo di amici, facciamo una quindicina, e quella cenetta si chiama hangi, ma spesso si traduce anche in una separazione legale o in una telefonata ai carabinieri.
C’è chi pensa che le pecore neozelandesi siano la reincarnazione di giocatori avversari puniti per la loro presunzione, tipo una versione australe di Ulisse e la maga Circe (e c’è addirittura chi giura di conoscere un neozelandese che non abbia mai giocato a rugby. E quel neozelandese non è una pecora).
C’è chi, prima di fare l’amore, urla “Ka mate! Ka mate! Ka ora! Ka ora!”, e dopo averlo fatto rantola “A-haha” estraendo la lingua, ma il bello è che questo non succede a Christchurch o a Rotorua, ma a Lambrate periferia di Milano o a Testaccio cuore di Roma.
C’è chi mangia kiwi sperando di migliorare nel placcaggio o nei calcetti a seguire, e anche questo non succede a Hawke’s Bay o a Manawatu, ma in Friuli o in Calabria. C’è chi una volta ha stretto la mano (in verità, se l’è fatta stringere e poi è andato a farsi fare una radiografia) a Jonah Lomu, ma da allora non se l’è più lavata.
C’è chi pensa che gli All Blacks, perfino gente come Neemiah Tialata e Sitiveni Sivivatu, siano il bello della vita, pur sapendo che la perfezione non è di questo mondo. Infatti, c’è chi, come John “Doc” Mayhew, antico medico degli All Blacks, una volta ha detto che “è vero che nel rugby ci sono stati incidenti e morti, ma mai niente di grave”.
Infatti c’è chi, come Tony Brown, giocatore neozelandese, una volta ha dichiarato che “quel calcio era assolutamente unico, a parte uno prima di quello che era identico”. Infatti c’è chi, come Jono Gibbes, giocatore neozelandese, una volta ha esclamato che “nessuno nel rugby dovrebbe essere chiamato un genio. Un genio è un uomo come Norman Einstein” (vi aiuto, sennò non capite lo svarione: Einstein si chiamava Albert). E infatti c’è chi, come Colin Cooper, che è stato anche capo-allenatore degli Hurricanes, una volta ha ipnotizzato i suoi giocatori comandando “voi, ragazzi, vi sistemate in ordine alfabetico per altezza e voi, ragazzi, vi abbinate a gruppi di tre, e poi tutti insieme fate un cerchio”.
Ma che ci volete fare, siamo fatti così, noi che pensiamo che la Nuova Zelanda sia il paradiso, il paradiso terrestre, e gli All Blacks gli angeli, gli angeli neri.
di Marco Pastonesi
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