Marco Pastonesi ci porta alla scoperta di storie, curiosità e vicende della nazionale wallabies attesa sabato a Firenze
Gli Aussies sono olimpici, anzi, olimpionici: ai Giochi di Londra, nel 1908, una sola partita, Australia (l’unica squadra in tour in quel periodo) contro Cornwall (scelta dalla English Rugby Union per rappresentare il Regno Unito), finale a Shepherds Bush, da una parte del campo c’era una piscina lunga 100 metri, fra il campo e la piscina una fila di materassi, poi reti da pescatori per catturare i palloni eventualmente calciati oltre la linea di touche, e vittoria dell’Australia 32-3. Fortissima, quell’Australia. L’unica sconfitta del tour prima della finale olimpica si verificò in Galles, a Llanelli, e quel popolo di minatori era così entusiasta, e forse anche sorpreso, che inserì il verso “Who beat the Wallabies”, chi batte i Canguri, nel suo inno “Sospan Fach”.
Gli Aussies sono anche biolimpionici: Daniel Carroll è l’unico ad aver conquistato due ori olimpici nel rugby, il primo con l’Australia nel 1908, il secondo con gli Stati Uniti nel 1920, perché nel frattempo si era trasferito alla Stanford University, in California. Il bello è che, quando giocò nella finale del 1908, Carroll aveva 16 anni e 149 giorni, e la cosa non era molto regolare.
Gli Aussies sono azzeccagarbugli: tant’è vero che si chiama “Australian dispensation”, la legge australiana che stabiliva come il gioco dovesse riprendere dal punto in cui i palloni, calciati fuori dai 22, rimbalzavano per l’ultima volta a terra, e questa legge risale al 1967, ed era uno dei primi interventi per favorire il gioco alla mano.
Gli Aussies sono dorati, ma mica da tanto tempo: la prima volta che indossarono maglie gialle oro (e pantaloncini verdi) risale al 1961, per il tour in Sud Africa, perché gli Springboks avevano maglie verdi con il colletto giallo oro. E anche se l’esordio della nuova divisa non si rivelò fortunato – i Wallabies persero tutti e due i test-match -, da allora la maglia dorata divenne ufficiale.
Gli Aussies sono rugbisti dal 1864, prima partita alla Sydney University, sei anni prima che il gioco venisse introdotto in Nuova Zelanda, sono rugbisti anche quando hanno nomi da donna (fra gli internazionali: Carroll, Ella, Fay, Francis, Kay, Lindsay, Rose…), sono rugbisti anche quando detengono il primato dell’extrasmall, un metro e 55 per 58 chili, come G.H.McGhie, dal Queensland, tre “caps” fra il 1928 e il 1930, sono rugbisti quando hanno giocato per l’Australia non solo nella Nazionale di rugby ma anche in quella di pallanuoto (come Roger Cornforth, in campo nel 1947 e nel 1950, in acqua nel 1956) o dell’atletica (come Mike Cleary (in campo nel 1961, in pista – 100 yards – nel 1962).
Gli Aussies sono i fratelli Phipps, Peter selezionato per l’Australia contro la Nuova Zelanda nel 1995, poi, infortunato, rimpiazzato dal fratello James, e la sostituzione venne fatta all’ultimo istante, tanto che in molte cronache era riportato ancora il nome di Peter. Sono anche Bob McCowan, avvocato, tre “caps” nel 1899, poi giudicato colpevole per aver usato beni di una fondazione a fini personali (niente di nuovo, in qualsiasi emisfero), risultato 15 anni in galera, e il resto della vita passato di bar in bar in cerca di lavoro. E sono soprattutto come David Campese, 64 mete in 101 partite, che dovunque andasse, portava con sé questa poesia di Nancye Sims (e la mamma di “Campo”, che gliel’aveva consegnata, pretendeva che lui la leggesse prima di entrare in campo):
I vincenti si prendono delle opportunità. Come chiunque altro, temono di fallire, ma rifiutano che la paura s’impadronisca di loro.
I vincenti non rinunciano. Quando la vita si fa dura, loro ci danno dentro finché le cose non migliorano.
I vincenti sono elastici. Si accorgono che esiste più di una via e sono disposti a provarne altre.
I vincenti sanno di non essere perfetti. Rispettano la loro debolezza mentre fanno il massimo delle loro possibilità…
I vincenti sono persone come te. E fanno di questo un luogo migliore dove stare
di Marco Pastonesi
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