Determinante in campo e fuori, il punto di contatto tra le varie anime della squadra. Un ruolo che può schiacciare. Ce ne parla Antonio Raimondi
Chris Robshaw, il capitano dell’Inghilterra, è sotto pressione. In due settimane successive è stato “messo in mezzo” per le sue scelte: contro l’Australia ha deciso per due volte di non andare per i pali, mentre contro il Sudafrica ha fatto la scelta opposta, con tre minuti ancora da giocare e quattro punti da recuperare.
Richie McCaw, tanto per cambiare, sabato contro il Galles ha preso una decisione che magari è passata inosservata, ma è stata di grande concretezza, quando ha indicato a Cruden di andare in touche, per tentare il bersaglio grosso. Naturalmente è arrivata la meta, rispolverando la giocata che già aveva mandato in meta Tony Woodcock, nella finale della Coppa del Mondo 2011. A quel punto il risultato era di sedici a zero, si potrebbe pensare che non fosse una scelta importante, ma proprio in questa situazione, si può comprendere ancora di più la qualità della leadership di McCaw: una meta, in quel momento, significava mettere una pietra tombale sulle speranze e la voglia di lottare dei gallesi. Non solo, per gli All Blacks, sicuramente stanchi dopo una lunga stagione, un secondo tempo in controllo, con scarso animo degli avversari, era l’ideale per conservare energie per l’ultima battaglia contro l’Inghilterra di sabato prossimo. McCaw è stato in pieno controllo della partita che stava giocando e di quella successiva. E’ il risultato dell’esperienza di chi ha vissuto critiche anche più feroci rispetto a quelle di Robshaw, da parte di chi non lo riteneva adatto al ruolo di capitano, magari solo sull’emozione dell’eliminazione dalla Coppa del Mondo del 2007.
Sono due esempi, all’opposto, che arrivano dall’attualità di novembre mondiale e che ci permettono di ragionare sul ruolo di capitano nel rugby moderno. Sicuramente l’esperienza è importante, lo dimostra McCaw e Robshaw ha tempo per fare esperienza, sempre che gli sia data l’opportunità, perché sabato contro la Nuova Zelanda potrebbe giocarsi il futuro da capitano. Chi ricopre il ruolo di leader deve avere rispetto e credibilità da parte di tutti: compagni, allenatore, media e tifosi. Non è il caso di Robshaw, ora nel punto più basso possibile, perché sabato scorso Farrell ha messo in discussione la sua scelta e lui stesso, chiedendo all’arbitro Nigel Owens se poteva cambiare la decisione, ha mostrato tutta la sua insicurezza. In questa situazione ha responsabilità importanti l’allenatore Stuart Lancaster, che ha esposto il proprio capitano alle critiche, dando segnali contrastanti, di là dalle parole di difesa, quasi d’ufficio, spese nella conferenza stampa post partita.
Con i fatti, e non con le parole, ha tolto credibilità a Robshaw quando ha sostenuto che in Inghilterra non ci sono fetcher tipo McCaw, Pocock e Hooper, man of the match in Ighilterra – Australia. Come dire che il suo capitano Robshaw, cresciuto da numero sei, gioca open flanker per mancanza di uno specialista. Il capitano deve essere riconosciuto prima di tutto per il suo valore di giocatore: McCaw è McCaw perché nel suo ruolo è il più forte neozelandese, O’Driscoll è O’Driscoll perché è il più forte centro irlandese e pensate ai problemi di un fenomeno come John Smith, quando pur capitano, non è più stato il più forte tallonatore sudafricano.
Un grande capitano ha semplicemente più responsabilità rispetto agli altri giocatori e questo ci porta a un altro tratto importante, la capacità di reggere il peso della pressione e quindi la solidità mentale di fare il lavoro che compete al suo ruolo, più aiutare i compagni. Sull’adattamento di Robshaw a numero sette, Lancaster riesce a fare una gaffe ancora più clamorosa, perché prima di diventare il “supremo” della nazionale maggiore, dal 2007 ha ricoperto il ruolo di RFU Head of Élite Player Development, in altre parole aveva la responsabilità di creare le condizioni per la formazione di giocatori con caratteristiche di fetcher. Piove governo ladro, ma non vale dire in Inghilterra non ci sono “grillitalpa”.
Lancaster deve rendere facile il compito del suo capitano. L’impressione sull’episodio di sabato è una mancanza di chiarezza e pianificazione: sotto di quattro con tre minuti da giocare si piazza, oppure si va per la touche. Una decisione che può essere pianificata, senza la pressione del momento, perché la valutazione è stata fatta a priori in modo razionale. Ci possono essere delle eccezioni, delle interpretazioni del momento, ma sono appunto eccezioni. Invece contro il Sudafrica Robshaw ha preso una decisione della quale non era convinto e la squadra ha dato ancora meno convinzione al capitano e ha fatto perdere all’Inghilterra pure una trentina di secondi, un tempo sufficiente per ribaltare il risultato, secondo il vecchio assioma di Clive Woodward: bastano venti secondi per marcare una meta.
Il capitano e tutti i giocatori devono essere preparati a riconoscere lo scenario e le azioni che sono più efficaci nel contesto. Per rendere l’idea, nella finale della Coppa del Mondo 2003, tutti gli inglesi, da Steve Thomson a Jonny Wilkinson (ma si potrebbe includere chi era in panchina, e tutto l’entourage), sapevano come giocare quell’ultimo pallone a disposizione, per sbloccare il risultato di diciassette pari: dove lanciare, come avanzare, fino a mettere Wilkinson nella miglior posizione possibile per il drop. Lancaster ha quindi molto da lavorare.
La scelta del capitano è strategica, perché anche nell’epoca moderna, del controllo del campo via Walkie-Talkie, è lui, in collaborazione con i responsabili delle varie aree, che deve applicare il piano del gioco. Per scegliere il capitano giusto occorre prima di tutto saper valutare le persone. E’ questione di comportamenti e di fiducia. Il capitano ideale ha la necessità di saper reggere la pressione di doversi sempre comportare nel modo giusto: con i compagni, con l’allenatore, con i giornalisti, con i tifosi. E’ un peso enorme, tanto quanto quello dell’usura fisica di giocare ad alto livello. Sempre McCaw è il punto di riferimento e il capitano All Blacks per il suo periodo sabbatico, pensa di andare in luoghi dove il rugby è sconosciuto, in modo da poter essere uno qualsiasi, almeno per sei mesi, perché poi fino a ottobre 2015 non avrà più nessun momento davvero solo suo.
Riassumendo le qualità di un grande capitano comprendono l’onestà (nei rapporti con i compagni e gli allenatori), la conoscenza delle dinamiche psicologiche dei gruppi (a livello professionistico non si può lasciare esclusivamente alla sensibilità individuale), la conoscenza delle tattiche e dei piani di gioco e per finire la capacità di spegnere l’interruttore e offrire una birra al momento giusto.
di Antonio Raimondi
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