Dally Messenger è stata la prima star del rugby australiano. Marco Pastonesi ci parla di lui
Una volta: gioco equilibrato, punteggio sul pareggio, pochi minuti alla fine della partita. All’apertura ordina, alla prima occasione, di dargli il pallone. Al resto ci avrebbe pensato lui. Ma gli avversari sentono tutto. E quando il pallone, conquistato dalla mischia, gli viene trasmesso dall’apertura, lui ha già un giocatore avvinghiato a una gamba. Non se ne preoccupa: ha sempre libera l’altra gamba. E con quella perfeziona il drop vincente.
Una volta: lui contro l’estremo, lui in attacco, pallone in mano, a pochi metri dal prevedibile impatto si passa il pallone da una mano all’altra, in modo tanto plateale quanto inaspettato, anche per l’estremo. E’ un attimo. Sufficiente, perché gli permette di sfruttare la disattenzione dell’avversario, evitarne il placcaggio e andare in meta.
Una volta: gioca ala, in tutta la partita non gli arriva un solo pallone, allora a dieci minuti dalla fine perde la pazienza, va a prendersi il pallone direttamente come apertura e segna non una, ma due mete.
Si chiama Messenger, il Messaggero, ma per tutti è Master, il Maestro, oppure Dally, perché i due nomi di battesimo, Herbert Henry – non è un caso che comincino tutti e due con il disegno delle porte da rugby, quasi a formare un campo -, sono troppo lunghi, pomposi e un po’ banali per la prima stella del rugby australiano. Perché il Maestro è del 1883, e dei sobborghi di Sydney, e forse pronipote di un galeotto inglese condannato ai lavori forzati, come tutti i primi australiani bianchi. Va a scuola, lavora al capanno in cui il padre tiene delle barche, e gioca. Gioca a cricket e a football australiano, gareggia nella vela, si cimenta nella canoa, ma quando comincia con il rugby, non la smette più. Ala, apertura, centro: spesso è difficile individuare il ruolo, perché il Maestro è un anarchico, più un ribelle che un rivoluzionario, non aspetta che sia il pallone ad arrivargli, ma è lui che se lo va a cercare, e poi inventa azioni, azzarda soluzioni, si avventura nel territorio nemico, crea confusione, porta scompiglio, semina panico. La sua specialità è il calcio: una pedata potente e precisa, un Jonny Wilkinson con un secolo di anticipo.
C’è chi si fa cento miglia per andare a vederlo giocare, e poi quando scopre che non c’è, se ne torna a casa rinunciando a vedere la partita. C’è chi definisce il suo gioco istintivo, imprevedibile, non ortodosso. C’è chi aggiunge che le sue invenzioni disorientano gli avversari, ma anche i compagni. Diciassette partite con il New South Wales, antenati dei Wallabies, più due con l’Australia. Tutto lì. Eppure ancora oggi il Maestro viene celebrato come il migliore rugbista Aussie di tutti i tempi.
Quando il Maestro cede alla tentazione dei soldi, 180 sterline, e abbandona la Rugby Union per la Rugby League, cioè il XV per il XIII, il dilettantismo per il professionismo, la Rugby Union gliela giura, e lo cancella dalla propria storia. Come se non sia mai esistito, come se non abbia mai giocato. Ci vogliono quasi cento anni per togliere la censura, riabilitarlo e riammetterlo al mondo. Per quello che si può immaginare, alla notizia del perdono, il Maestro – che poi gestì un paio di alberghi senza fortuna, amministrò un bananeto senza passione e chiuse come carpentiere senza clamore – avrebbe esibito un sorriso sghembo, appallottolato la lettera ufficiale di riammissione nei Wallabies, e calciata – con assoluta precisione – dentro un cestino. Troppo tardi. La partita era già bell’e finita.
di Marco Pastonesi
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