Verso Scozia-Italia: Scotland, quando un nome segna un destino

“Nomen omen” dicevano i latini. Andate a raccontarlo a Ken Scotland, estremo dei tempi andati. Scrive Marco Pastonesi

ph. Steven Paston/Action Images

Il più scozzese dei rugbisti scozzesi è Ken Scotland. Che è come se un rugbista irlandese si chiamasse Ireland (che è successo nel 1876) e un inglese England (e poi – giuro – ci sono stati gli irlandesi English, Holland e Spain, e gli scozzesi France, French, Ireland, Turk e Welsh). Ken Scotland, 29 agosto 1936, da Warriston, quartiere a nord di Edimburgo. E pensare che a casa Scotland, quando si parlava di pallone, s’immaginava quello rotondo: il padre era un tifoso degli Hearts, calcio. Ma quando Ken cominciò a guardare le partite prima a Inverleith, e poi a Murrayfield, ed erano partite di rugby e non di calcio, venne incoraggiato a giocare con l’ovale. Le prime partite a scuola, da mediano di apertura. Poi nell’esercito, da estremo. Quindi all’università, quella blu cielo di Cambridge, da estremo. Infine nei club, da London Scottish a Ballymena, da Leicester a Aberdeenshire, ormai, e per sempre, da estremo. Ma, all’occorrenza, anche mediano di mischia e centro. “Tiravamo su una maglia senza guardare il numero – dice Scotland – poi si entrava in campo e si giocava”.

 

Scotland era un istintivo: se c’era una cosa che non sopportava erano i discorsi prima della partita, se c’era una cosa che amava era la libertà al confine con l’anarchia, se c’era una cosa che detestava era perdere segnando più mete degli avversari, se c’era un giocatore che ammirava era Gareth Edwards, mediano di mischia del Galles, e se ce n’era un altro era Mike Gibson, centro dell’Irlanda, tutti e due compagni nei Lions. Trentadue partite nella Scozia quando a livello internazionale si giocava la metà di adesso, tra il 1957 e il 1965 (la prima e l’ultima partita contro la Francia, e nella prima segnò tutti i 6 punti con cui la Scozia s’impose), quelli erano anni di dilettantismo puro, di tournée lunghe fino a cinque mesi, di partite contro avversari conosciuti più per sentito dire e raccontare, che per visto e studiato.
Scotland confessa di essere stato fortunato a non infortunarsi mai gravemente: “Quella volta che mi lussai una spalla, e nella squadra avversaria giocava un medico, la sua fu un’opera di pronto soccorso, prontissimo, più pronto di così non si poteva, tant’è che in un attimo fu sopra di me e un attimo dopo me la sistemò. Quella volta che il mio centro mi regalò una palla-ospedale, perché appena ricevetti il pallone, mi arrivò addosso un avversario, fu come finire contro un muro, e fu anche l’unica volta in cui uscii dal campo in barella”. Scotland aggiunge anche che “si facevano un paio di allenamenti la settimana, ma ci furono anni in cui mi presentavo il sabato e giocavo la domenica, e quello era semplicemente tutto”.

 

Il bello di Scotland era la sua capacità di giocare come se fosse un centro o un’ala in più, era il suo passaggio teso, era la sua abilità a calciare indifferentemente con il destro o con il sinistro, era il suo senso della posizione, era il suo placcaggio secco, soprattutto era il suo contrattacco. Il bello di Scotland era anche il suo senso della squadra: “Non sono entusiasta del premio di ‘man-of-the-match’. Anzi, a essere sincero, non lo approvo. Il rugby è uno sport di squadra. E io ricordo squadre, non giocatori, ricordo collettivi, non individualità”. Se c’è un particolare per cui Scotland è entrato nella storia del rugby, è la rincorsa del calcio: prima di lui, assestando grandi puntate al pallone, bastava una rincorsa in linea con pallone e pali, poi fu lui, colpendo il pallone con l’interno del collo, a introdurre la rincorsa laterale.
Smesso di giocare, Scotland lavorò nell’edilizia. Costruire, fabbricare, edificare. Tutti verbi rugbistici. Magari più da avanti che da trequarti, comunque da squadra. E una bella squadra è anche la famiglia: tutti i suoi tre figli si sono poi dedicati al rugby, ma senza raggiungere le vette del padre. “Sfortunatamente – spiega lui – i lampi non colpiscono due volte nello stesso punto”.

 

di Marco Pastonesi

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