Il Citta prima di Twickenham, un pilone messo a cuore aperto

Una intervista rilasciata prima di Inghilterra-Italia, quando nemmeno lui si aspettava di vedersi protagonista

ph. Sebastiano Pessina

Ora dovremmo iniziare a pensare di essere diventati una sorta di portafortuna. Perché sabato pomeriggio la nostra Stefania Mattana in quel di Londra ha incontrato e intervistato Lorenzo Cittadini. Prima del partitone che ha giocato a Twickenham, quando un suo impiego non era forse nemmeno ipotizzabile. Invece le cose sono andate diversamente. Questo il resoconto dell’incontro con il pilone azzurro.

 

Dall’alto del mio metro e mezzo (o poco più), stringere la manona di Lorenzo Cittadini è stato davvero complicato. A dire il vero, è stata l’unica difficoltà incontrata nell’intervistare il grande sorriso del pilone bresciano. Come il suo collega azzurro Andrea Masi, anche il Citta si è raccontato mostrandosi un professionista serio e dedicato al suo lavoro e un ragazzo con una carica di positività contagiosa. Ci siamo incontrati il sabato prima di Inghilterra-Italia, in un’oretta di buco tra il loro arrivo a Londra e l’ultimo allenamento prima del match. A pochi passi dalla nostra comoda postazione, Ghiraldini, Venditti e Zanni a guardare (e commentare) Scozia-Galles.

 

Citta, iniziamo subito con alcune domande “prese in prestito” da un giovane pilone. Cosa provi a ogni ingaggio e come fai a capire che non si scherza, con te?
Concentrazione. La mischia è molto delicata, per cui è necessaria la massima concentrazione in ogni dettaglio. Inoltre, bisogna ingaggiare con l’attitudine giusta, altrimenti si rischia di farsi male… e di fare brutta figura. Non c’è un modo per dire all’avversario che non si scherza: il rispetto da parte loro nei tuoi confronti te lo guadagni sul campo, partita dopo partita, ingaggio dopo ingaggio. Più giochi, più conosci anche gli altri piloni, e anche loro imparano a conoscere te.

 

A proposito, si dice sempre che i piloni giochino una partita nella partita: vale anche oggi nel rugby moderno? 
Come no! Il ruolo del pilone si è evoluto come si è evoluto il rugby, ma la sfida nella sfida per noi esiste sempre. Poi ogni partita è a sé, perché, sebbene il risultato finale della squadra è sempre quello più importante, per un pilone è motivo di orgoglio anche vincere la sfida con l’altro pilone e fare bene nella nostra sfida interna, diciamo.

 

Puoi svelare qualche piccolo trucco del mestiere per piccoli piloni in erba? Avrai qualche coniglio dentro il cilindro, no?
[ride] Ma no, alla fine sì, trucchi e trucchetti ci sono, ma non è che li puoi insegnare così! I trucchi li impari sulla tua pelle, giocando, giocando, giocando. Io, devo essere sincero, sono stato fortunato perché a Calvisano ho avuto Ciccio (De Carli) che mi ha preparato e insegnato tantissimo. Però i “trucchi” li impari solo con l’esperienza, anche arrangiandoti quando sei in partita. Poi vabbè, i trucchi sono bene o male quelli che conoscono tutti: come li usi tu li usa anche il tuo avversario!

 

E allora dimmi almeno un paio di consigli da dare ai giovani rugbisti che ci leggono e che voglio diventare dei professionisti come te
Ecco, prima di tutto non pensare al professionismo. Quello è un plusvalore che arriva, e arriva solo per pochissimi. Il consiglio che posso dare è quello di provare il rugby per divertirsi e di non pensare troppo alla carriera sportiva: quella può arrivare, ovvio, ma il salto di qualità non è matematico. É giusto avere i propri sogni e perseguirli con tutti i mezzi, ma è anche giusto non tralasciare la scuola. Scuola e rugby possono coesistere tranquillamente e l’una non esclude l’altro. Io sono stato fortunato perché ho trasformato la mia passione in un mestiere, ma per fare il salto di qualità ho lavorato prima di tutto sulla passione, ossia divertendomi.

 

Se potessi costruire il pilone perfetto che “poteri” gli daresti?
Prima di tutto il potere della mischia chiusa. É il più importante. Come secondo, il potere “lavoratore”: un pilone che gioca bene anche nel gioco aperto, che corre e pulisce nelle ruck, è certamente un bonus per ogni squadra. Infine, non devono mancare i poteri della forza fisica e della rapidità, per spostarsi da una parte all’altra del campo il più presto possibile. E io devo ancora lavorare molto sulla rapidità! [ride]

 

L’avversario più forte che hai avuto di fronte?
Perry Freshwater.

 

Non mi aspettavo un nome detto così, a bruciapelo. Cosa ti è rimasto impresso di lui?
Mi ha messo in difficoltà tutte le volte che ci ho giocato contro, quando giocava con il Perpignan. Un pilone esperto, forte fisicamente e molto tecnico. In assoluto il più forte pilone con cui abbia mai giocato contro.

 

E qual è il tuo punto di riferimento in materia di numeri 3?
Ora come ora, nessuno. Quando ero più giovane, che stavo venendo su come pilone, il mio punto di riferimento era Carl Hayman. Anche perché un po’ lo potevo associare a me, come potenza e struttura fisica. Adesso ovviamente il mio unico punto di riferimento è quello di migliorare me stesso sempre di più.

 

Guardiamo all’Irlanda, l’ultima prova del torneo. Il XV in maglia verde si sta dimostrando spesso e volentieri incapace di concretizzare, subendo il gioco dell’avversario, che quindi rimonta. Tu come la vedi?
L’Irlanda è una squadra dalle grandi potenzialità. Durante questo Sei Nazioni ha subito un po’ sia gli infortuni che la squalifica di Healy. Inoltre, manca a volte di carisma all’apertura e di un leader che la guidi al 100%. Di certo, nonostante le difficoltà che sta incontrando durante il torneo, non è una squadra da prendere sottogamba. Inoltre, con Treviso abbiamo spesso incontrato squadre irlandesi nella Pro 12, per cui abbiamo una certa familiarità con il loro gioco: sono davvero impressionanti, ma allo stesso tempo a volte crollano completamente, se messi ben bene sotto pressione.

 

Insomma, è un po’ come se l’Irlanda andasse a corrente alternata. Credi che una causa possa essere il cambio generazionale?
Sì, certamente il ricambio generazionale è di impatto nella dinamica di gioco di una nazionale. L’Irlanda ha dei giovani molto forti e questo periodo di assestamento credo sia fisiologico. Ma ripeto: ogni partita è a sé e non dobbiamo certamente sottovalutare questa Irlanda.

 

Che mi dici del tuo futuro? Vedi la coppa del mondo del 2015?
Ho già avuto la fortuna di partecipare ai mondiali in Nuova Zelanda, che sono stati letteralmente un sogno diventato realtà. Però spero di giocare la RWC qui in Inghilterra più da protagonista.

 

E per quanto riguarda il club? So che sono suonate le sirene dell’estero…
L’anno scorso a Treviso sono stato molto vicino dall’andare via, poi ho deciso di rimanere perché ho creduto nel progetto della Pro 12 e nel bel gruppo che si è creato. Ho ancora un anno di contratto con Treviso, poi si deciderà. Certo è che un contratto all’estero è importante come bagaglio di esperienza e mi piacerebbe – ovviamente – poter giocare anche fuori dall’Italia, ma il fatto stesso di giocare all’estero non è un fattore determinante al 100% nella scelta di un club, almeno personalmente. Credo che sia inutile accasarmi in un club estero che non ha molte aspirazioni o dove faccio molta panchina. A Treviso, grazie alla Pro 12, ho la possibilità di saggiare il palcoscenico internazionale e allo stesso tempo di avere tanto minutaggio di gioco nelle gambe. Perché giocare sempre è la cosa più importante. Altrimenti non ha senso nessuna scelta, nemmeno quella dell’estero.

 

Hai voglia di raccontarmi di quel 30 maggio del 2008, il giorno in cui ti sei fatto male?
Semifinale scudetto Calvisano – Padova. Era un anno in cui tutto andava bene, era tutto perfetto: io ero in formissima, abbiamo dominato il campionato, ho fatto il mio esordio in nazionale a Croke Park sostituendo Nieto, con il gruppo di Calvisano ci divertivamo dentro e fuori dal campo. Andava davvero tutto benissimo, e poi mi sono fatto male. I rischi del mestiere.

 

Frattura scomposta ed esposta di tibia e perone. Un infortunio davvero brutto e doloroso.
Più che altro un infortunio lungo. A dire il vero è più lungo a pensarci ora che quando l’ho vissuto![ride] Ci sono voluti 17 mesi perché potessi tornare in campo. In quei mesi ho lavorato tanto e mi sono impegnato al massimo per poter tornare a giocare il prima possibile.

 

Hai avuto qualche complicazione durante la riabilitazione? Sapevo che la placca d’acciaio sull’osso ti ha dato fastidio.
Sì, un po’ mi dava fastidio perché si infiammava e non mi faceva camminare bene, ma per il resto non ho avuto grossi problemi. La cosa positiva di rompersi le ossa è che quando si aggiustano diventano ancora più dure! [ride] Ci ho messo 5 mesi per tornare a camminare senza stampelle, a febbraio 2009 ho rimosso la placca dall’osso. Ecco, forse l’unica cosa difficile è stata tornare a correre. All’inizio avevo un po’ di dolori alla caviglia, e non sapevo se fosse una cosa normale. Poi ho capito che effettivamente rimettere in moto un fisico “di peso” come il mio, dopo mesi di inattività totale, non era certo una cosa semplice.

 

E quando sei tornato a giocare ha avuto paura?
No.

 

Nemmeno al primo ingaggio?
No. Tornare a giocare e avere paura di giocare non avrebbe avuto davvero senso. Ovviamente, ci ho messo un po’ prima di trovare il giusto ritmo di gioco, il feeling con la nuova squadra a Treviso e ritrovare quella forma strepitosa che avevo lasciato al 2008.

 

Non hai mai pensato “ora basta, mollo tutto, non ce la farò mai” durante la tua lunga riabilitazione?
No.

 

Davvero? Nemmeno un giorno, nemmeno un momento?
No, mai. Voglio dire: perché avrei dovuto? Mi è capitato un infortunio “netto”, duro, lungo da recuperare, ma sono stato fortunato, in un certo senso, perché mi sono infortunato una volta sola. Cosa avrebbero dovuto fare quelli che passano da un infortunio a un altro? Se mollano loro, li potrei anche capire. Ma io non ci ho minimamente pensato. A dire il vero, non vedevo l’ora di tornare in campo! Il pensiero di tornare a giocare al più presto possibile mi ha accompagnato durante tutto il mio percorso, dall’ambulanza al mio “nuovo” debutto in campo.

 

(piccola nota personale: stampate le ultime risposte di Cittadini e appendetele in club house, di modo che tutti i ragazzi che si infortunano possano leggerle e impararle a memoria.)

 

di Stefania Mattana

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