La nostra Stefania Mattana domenica era a Twickenham. Ecco il suo racconto di una giornata particolare
Quando sono salita a Waterloo in direzione Twickenham, di certo non mi aspettavo la partita che ho visto. E probabilmente nemmeno gli inglesi, che già pregustavano un bel tariffone ai nostri danni. Speravo in una buona gara dei nostri, mentre i British boys affianco a me continuavano a dire che “we are going to give you a good hiding”, che in spiccioli sarebbe “Ve le daremo di santa ragione”.
Ai britannici le battute non mancano mai, immaginate quelle che sono volate quando, alla stazione di Putney, il treno era così pieno che alcuni tifosi italiani non riuscivano a salire, e andavano avanti e indietro tra due porte nel tentativo disperato di entrare dentro una delle due carrozze. “Non lasciateli salire, lasciateli qui! – ha iniziato un tifoso inglese – Fatelo per il loro bene, non si perderanno nulla allo stadio!” E giù tutti a ridere. Chissà se all’uscita dallo stadio avevano ancora voglia di ridere!
Twickenham, come al solito, è un posto magico. Per combattere il freddo mi sono fatta una bella passeggiata dentro tutto lo stadio, da tribuna a tribuna, tra coloratissimi tifosi vestiti con ogni foggia e colore e bambini con un succo di frutta in mano (d’altronde, più o meno ha lo stesso colore della birra dei loro padri) e le facce dipinte dei colori dell’Inghilterra e dell’Italia. Una guancia per ogni squadra, come da copione.
Quando entrano le due squadre in campo, il pubblico esplode: i banner laterali che corrono sotto le tribune scrivono “Come on England” a grandi caratteri, ma quando entrano i nostri i banner diventano azzurri e in bianco troneggia un bel “Benvenuto agli azzurri”. A grammatica dò un 6 di incoraggiamento agli inglesi, ma in quanto a sportività 10+. Per dirne una, quando Flood calciava non volava una mosca, sugli spalti. E anche quando ha calciato Orquera il silenzio dello stadio era irreale, quasi più irreale della volta che sono entrata a Twickenham che non c’era nessuno.
La cosa che mi ha colpito di più? Una maglietta enorme dell’Inghilterra, durane gli inni, circondata da ragazzini e ragazzine vestite con la maglia dei loro club. Sarà una piccola cosa, ma io l’ho trovata molto poetica: la maglia della nazionale è quella che raccoglie tutte le altre in sé, ed è il denominatore comune di tutti i ragazzi che ogni giorno mangiano fango e terra per divertirsi, con un sogno segreto in tasca.
Che allo stadio vedi mille cose che non puoi vedere dalla televisione è un fatto risaputo: non solo una visione ad ampissimo spettro di ciò che accade in campo, ma anche quello che accade fuori. Ed ecco che a pochi minuti dagli inni sotto gli spalti trovi un trombonista alle prese con un’insolita pulizia dello strumento (chissà cosa gli era entrato dentro il trombone) e il direttore dell’orchestra che gesticola come un forsennato, come raramente fanno i composti, sobri inglesi.
Oppure, mentre la squadra inglese attacca e cerca di sfondare la difesa azzurra, a bordo campo vedi i raccattapalle (30 anni in due, se va bene) passarsi l’ovale e divertirsi, come se sul campo non stesse accadendo niente di più interessante di giocare tra loro. Che poi sia arrivato un adulto e li abbia rimproverati malamente, mettendo fine al loro quarto d’ora di personale “rugby internazionale”, è un’altra storia.
Le voci di Twickenham arrivano sempre forti e chiare, un po’ portate dal vento, un po’ perché la gola allo stadio non fa mai male (al limite fa male il giorno dopo). Il grido “Italia, Italia!” ha superato molte volte il “Swing low, swing chariot” di casa, che si è sentito prepotente solo dopo la bella meta di McLean. Come dire: il sedicesimo giocatore è sempre il pubblico, e più è numeroso più è formidabile. Ma nello sport la matematica non conta tanto. Sorry, mates.
Ci ho messo quasi due ore a tornare a casa. Normale amministrazione per Londra. La maggior parte della strada l’ho fatta con un ragazzo che è andato a vedere la partita da solo, e aveva un muso che non finiva più. “Dovresti essere felice, avete vinto”, gli ho detto. “Una partita di m… – mi ha risposto – A mala pena abbiamo vinto. E per vedere questa partita ho litigato con la mia ragazza, perché avevo un impegno con lei e l’ho saltato. Che fregatura.”
Tranquilli, cari lettori: i due hanno fatto pace appena lui è sceso dal treno. Le ha preso una rosa rossa, così come l’ha presa per la mamma (idomenica era la festa della mamma qui in UK).
“Credo che sia l’unica cosa che le piace del rugby” mi ha detto prima di scendere a Waterloo, guardando la rosa. E meno male che lo stemma inglese è una rosa e non una cipolla.
di Stefania Mattana
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