Fabio Beraldin, l’uomo che convinse Munari e fece adulto il Valsugana

Marco Pastonesi ci porta nel cuore della base del movimento rugbistico italiano con una storia tutta da leggere

foto dal sito ufficiale del Valsugana Rugby

Ha la faccia da marinaio, da pittore, da attore. Però ha il fisico più da marinaio. Dunque: marinaio. Ha un nome da console, Fabio, e un cognome che sprinta su un gran premio della montagna, Beraldin. Viene da Padova, che sa di rugby come Alleghe sa di hockey su ghiaccio, Jesi di fioretto e Ortigia di pallanuoto. Eppure a 18 anni giocava ancora a calcio, finché un paio di amici gli tese la solita trappola: vieni? Lui ci cadde: sì. Tesserato, andato – a Udine -, giocato, rimasto. Per sempre. La prima volta da terza linea, poi da pilone fino a estremo, infine ala, non più nel Valsugana, la sua prima squadra, ma addirittura nel Petrarca. Intanto diplomato all’Istituto tecnico agrario, laureato in Scienze forestali, 20 mesi alla Protezione civile da obiettore di coscienza, insegnante supplente che è un po’ come stare su una panchina lunga ed entrare a partita cominciata, e una indimenticabile trasferta in Bosnia per partecipare a una marcia della pace, e a Sarajevo per stringere un cordone umanitario.

 

Al Petrarca il suo allenatore era Vittorio Munari, conosciuto come Napoleone, non per le doti democratiche o, rimanendo in tema, umanitarie. Tant’è che i compagni gli avevano profetizzato: con Munari, se stai in panchina alla prima partita, ci rimani tutto il campionato. La prima partita non si mise bene: rimase in panchina. Poi però Munari gli consegnò una maglia da ala contro il Milan. Ricordati due cose, gli comandò risparmiando sulle parole, comprese quelle democratiche e umanitarie: Campese, nella nostra metà campo, placcalo; Campese, nella sua metà campo, stai nei 22. Il Petrarca perse, ma Beraldin, profondo e placcatore, vinse il duello con Campese, sempre ammesso che sia possibile vincere a livello personale in uno sport collettivo, e la risposta è no. Poi: capitano nel 1995-1996. Beraldin, non Campese. E in Coppa Europa. E con i Dogi. E con il XV della Colonna. Ce n’è di che da raccontare, eventualmente, ai nipoti davanti al camino.

 

Ma il bello doveva ancora arrivare. E il bello coincise con il ritorno al Valsugana. Inteso come rugby sociale, come rugby totale, come rugby giovanile, anche come rugby femminile. Ottocentomila euro scovati, recuperati, investiti in sette anni, a botte di decine o di migliaia, ma senza toglierne neanche uno all’attività sportiva. Per ideare ed edificare una cittadella del rugby: campi, spogliatoi, club house, palestra, sale salette saloni, e squadre dagli Under 6 agli Old, con allenatori e dirigenti, sapendo che a 50 anni bisogna cominciare a restituire tutto quello che il rugby ha regalato. Comunque: niente rugby da bevitori di birra, e niente rugby da babysitteraggio. Anche se, all’ingresso, “il giardino di Lele” è una specie di parco-giochi pensato per i più piccoli. Anche se, sul campo, l’autobus rosso a due piani proveniente da Londra è una specie di tribuna e di pub. Anche se i campi da beach volley e beach rugby sono aperti a tutti. Anche se, prima o poi, i “tutor” per dare una mano negli studi, le borse di studio legate al progetto e non al risultato, il centro estivo, una biblioteca e un cineforum, e avanti popolo.

 

Beraldin, faccia e fisico da marinaio, lo sguardo da orizzonte di chi ha doppiato Capo Horn, naviga sempre a vista. Ma quella che prima era una zattera, e poi un galeone, adesso è terraferma: un’isola che c’è. Un’isola non felice, ma diversa. Perché la felicità forse appartiene a un altro mondo, ma questa, nella sua diversità, è già un bel passo avanti. E il bello – un giorno Beraldin racconterà ai nipoti, eventualmente, davanti al camino – deve ancora arrivare.

 

di Marco Pastonesi

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