Philippe Doussy: “I miei primi due mesi da Southern Kings”

L’impatto con il Super Rugby, le differenze ambientali e culturali con l’Europa. E infine il caso-stranieri

A gennaio OnRugby vi aveva dato notizia della partenza di Philippe Doussy da Parma per Port Elizabeth, dove era stato inserito nello staff tecnico della nuova franchigia sudafricana di Super Rugby, i Southern Kings. Lo abbiamo sentito via skype qualche ora prima della partita di Christchurch (Nuova Zelanda) con i Crusaders. Non una intervista ma una chiacchierata in cui ci racconta alcuni degli aspetti magari meno conosciuti di un torneo che in tanti definiscono come l’NBA del rugby.
Una sorta di dietro le quinte che ci terrà compagnia con altri appuntamenti durante la stagione della maggior competizione per club dell’emisfero sud.

 

Due mesi di Kings e Super Rugby. Come va?
Sono partito dalla nebbia di Parma e mi sono ritrovato catapultato davanti all’oceano di Port Elizabeth. Il sole è forte e il vento continuo spaccano la pelle, ma c’è decisamente di peggio nella vita…
Ho preso la decisione di venire qui e quando fai un passo simile devi essere convinto al 120%. Io lo ero, avevo fiducia nei miei mezzi e nelle mie possibilità. Il problema più grosso inizialmente è stato quello della lingua, conoscere il comportamento quotidiano di una squadra con una quarantina di giocatori professionisti, di uno staff molto numeroso rispetto agli standard italiani, nazionale compresa.

 

Impatto con il professionismo ai massimi livelli
L’importante è rimanere umili e non uscire dai propri compiti che sono ben delimitati e specifici, in un management così allargato questa cosa è determinante. Ho osservato tantissimo quello che fanno gli altri e ho cercato di conoscere al più presto possibile le persone con cui devo lavorare, è fondamentale.

 

Hai notato delle differenze nell’approccio dei giocatori?
In generale hanno una grande passione, tutti hanno lo stesso obiettivo, lavorano tanto e sempre con il sorriso sulle labbra. In testa hanno solo il rugby. Ad esempio dedicano al pranzo veramente pochissimo tempo. Sembra una cosa minima, ma non lo è: mangiano perché hanno fame e devono mangiare, ma in dieci minuti hanno finito e poi via subito a visionare video o a fare palestra ed esercizi. In Italia, in Francia, in Europa non è così.

 

Parli di grande passione, vuol dire che da noi non è così?
E’ diverso, da noi la stagione è molto lunga: inizi con la preparazione a luglio e finisci ad aprile/maggio, superando anche mesi con un clima non idilliaco come novembre o gennaio. Mantenere la stessa concentrazione sempre è molto dura.
Qui hanno una stagione più breve, concentrata in sei mesi, alimentare la passione è forse più semplice. E comunque ci sono differenze nell’atteggiamento dei giocatori.

 

Avete seguito il Sei Nazioni? C’è interesse nell’emisfero sud?
Sì, abbiamo visto molte partite. Tutti lo seguono: giocatori, staff, tifosi. Lo seguono per passione e perché vogliono sapere che cosa accade in Europa. Ma la cosa molto bella e importante è un’altra…

 

Quale?
I rapporti con la federazione sono strettissimi. Parte dello staff tecnico degli springboks è stato con noi anche recentemente. Vengono continuamente, non tutti assieme, ma vengono spesso: il coach dei trequarti, poi quello della mischia, della difesa… Non sono per nulla invadenti, non impongono nulla, non ti dicono cosa devi o non devi fare. Stanno in disparte, osservano tutto, scrivono relazioni. Poi parlano con noi dello staff ma non criticano, si vogliono solo informare sul metodo di lavoro, sulla filosofia che sta alla base per meglio capire. E’ uno scambio continuo e molto importante. Poi si tengono in contatto anche quando non ci sono telefonando o scrivendo email, chiedono video. E’ davvero una bella collaborazione.

 

Uno scambio così serrato con tutte le realtà del Super Rugby è dovuto secondo te a un approccio culturale particolare o legato a problemi meramente logistici: il Sudafrica è un paese enorme, le distanze sono considerevoli
No, è un fatto culturale. Paesi come il Sudafrica o la Nuova Zelanda, un po’ meno l’Australia, se non conosci il loro approccio al rugby non puoi dire di conoscerli bene. Scusa il bisticcio di parole. Qui il rugby vuol dire tantissimo, le distanze non c’entrano, è tutto collegato come se fosse una specie di enorme laboratorio. Tutte le idee, tutti i metodi di lavoro possono tornare utili anche agli springboks, il passaggio delle idee e delle informazioni non è mai unidirezionale.

 

Veniamo ai Kings: avete iniziato bene, poi sono arrivate solo sconfitte.
Siamo una squadra giovane, fatta in poco tempo. Per noi era importante partire bene anche perché non è che siamo molto amati qui. Sai, con tutte le polemiche che hanno accompagnato la nascita dei Kings e il fatto che i Lions sono stati lasciati fuori dal Super Rugby… Togliere la squadra di Johannesburg è come se in Italia togliessero il Benetton. Volevamo far parlare il campo e con la prima gara con i Western Force ce l’abbiamo fatta. Poi abbiamo sempre perso ma è anche vero che abbiamo giocato con squadre molto forti come i Chiefs campioni in carica, gli Sharks e ora con i Crusaders (la chiacchierata l’abbiamo fatta qualche ora prima della partita di Christchurch, ndr). Abbiamo tanti giocatori molto giovani che non hanno mai giocato nel Super Rugby e qui gli scontri fisici sono devastanti.

 

Come vi preparate all’avversario di turno?
Abbiamo tre video-analyst: uno si occupa unicamente dei Kings in tutti i loro aspetti, un altro della squadra che andiamo ad incontrare e uno infine lavora solo sugli avversari con cui giochiamo a una distanza di tre o quattro settimane. Abbiamo un software fantastico che permette di isolare ogni singolo aspetto del gioco e delle partite disputate sotto quattro angoli diversi. Abbiamo una decina di computer dove per ogni giocatore vengono messi a disposizione file video con tutti gli aspetti relativi alla sua partita, cosa è andato bene cosa male e cosa c’è da migliorare. Non solo, c’è l’archivio di tutte le gare e i montaggi su tutte le squadre con cui abbiamo già giocato o con cui dobbiamo giocare con schede relative a ogni singolo giocatore avversario. C’è un lavoro di preparazione e produzione enorme.

 

Le riunioni tecniche avranno perciò una importanza decisiva
Se giochiamo ad esempio il sabato sera la domenica mattina lo staff tecnico si ritrova per preparare la partita successiva. Le nostre riunioni in quei casi non durano mai meno di cinque ore. Non solo: il director of rugby controlla in maniera molto aprofondita il lavoro di ogni reparto. Se qualcosa non ha funzionato nel settore che ricade sotto le mie competenze la cosa viene fatta notare. Si tratta di un comportamento onesto e professionale.

 

Impossibile non chiederti nulla sulla questione-stranieri
Mercoledì scorso è stata una giornata davvero brutta: eravamo arrivati a Christchurch in Nuova Zelanda e abbiamo dovuto convocare una riunione con tutti i giocatori per comunicare loro che in due avrebbero dovuto tornare in Sudafrica per via della decisione della SARU. E’ stato veramente brutto perché anche per un giocatore di questi livelli è difficile farsene una ragione quando sai che non potrai giocare non per una scelta tecnica del tuo allenatore ma per una questione completamente extra-sportiva.

 

Però è vero che il problema non nasce la scorsa settimana, avvisaglie ce n’erano state anche durante la preparazione prima dell’inizio del Super Rugby
Sì, è vero, ma poi i Kings e la SARU si erano parlati e chiariti, o così almeno pensavamo. Ci avevano detto che quei giocatori potevano essere messi sotto contratto e poi utilizzati. La federazione aveva detto che gli argentini erano considerati eleggibili perché in Sudafrica ci sono i Pampas che partecipano alla Vodacom Cup. Poi non so cosa sia successo.

Un problema che non riguarda invece il keniano Adongo
No, in Sudafrica tutti i tesserati nati nel continente non sono considerati stranieri. Di Adongo comunque sentiremo molto parlare: è molto forte e fisicamente è un mostro.

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