Marco Pastonesi ci porta alla “scoperta” di Chicco Pessina, uno che il gene ovale ce l’ha nel nomignolo con cui è conosciuto da tutti
Se il rugby si traducesse e si materializzasse – infine, alla fine, finalmente – in una sola persona, non sarebbe né il presunto inventore inglese William Webb Ellis, e neanche il valoroso terza neozelandese Richie McCaw, ma un italiano meno presunto e non meno valoroso. Nome e cognome: Chicco Pessina, anche se all’anagrafe risulta Enrico, però se sulla strada o sul campo chiamate Enrico ormai non si volta più neppure lui. Luogo: lui è nato a Milano e abita a Lainate, ma la sua “caput mundi” è da sempre Rho, la città più rugbistica d’Italia, tanto da possedere l’h, anzi, l’H, cioè pali e porta, incorporata giusto in mezzo al nome (come la piemontese Vho, che però non è ancora stata evangelizzata dal rugby), e la storia tramanda quei campi rhodensi annebbiati e affumicati che negli anni Cinquanta e Sessanta ospitavano la classe operaia che andava in paradiso, finché la classe operaia è scomparsa prima ancora del paradiso, ammesso e non concesso che il paradiso sia mai esistito veramente. Età: cinquantotto, ma questo è soltanto un dettaglio, essendo il Pessina uno che potrebbe avere dai cinque agli ottantacinque anni, cinque prima di cominciare un allenamento tanta è la voglia che agita il bambino che è dentro di lui, e ottantacinque alla fine, tanta è la saggezza accumulata. Segni particolari: crapa pelada la fà i turtei, e ghe ne dà minga ai sò fradei.
Nel rugby, Chicco (a pensarci adesso: anche lui ha la h, anzi, la H, incorporata nel nome) ha fatto tutto, ma proprio tutto. Il giocatore, innanzitutto. Cominciato da ragazzo (allora, da bambini, si avevano cose ancora più interessanti da affrontare, come spostare confini, esplorare orizzonti, perdersi e ritrovarsi in avventure, scoprire il mondo toccando e annusando), mai più smesso, neanche adesso, da Old (la O va sempre maiuscola, perché così ha proprio la forma di un pallone da rugby), ruolo terza linea ma anche tallonatore, e poi facendo di tutto, dal pilone all’estremo andata e ritorno, forse anche per capire fino in fondo quanto sia profondo giocare e dunque conoscere con consapevolezza tutte le posizioni in campo e in mischia, consapevolezza significa coscienza, e coscienza significa convinzione, e chi non si convince come potrà mai vincere? Poi allenatore (ancora adesso l’inossidabile Chicco insegna mark e maul), dirigente, accompagnatore, consigliere, mai presidente, animatore, nonché storico e musicista, scrittore e giallista, enigmista a volte perfino enigmatico.
Bisogna infatti sapere che Chicco di professione fa l’architetto, ma per passione scrive e suona, cucina e viaggia, cavalca (moto) e monta (tende), insomma a suo modo è anche un po’ cowboy, e poi raduna e organizza, insomma sostiene. E’ uno di quelli che – solo il rugby vanta questo straordinario potere – sono capaci di raddoppiare e dunque di sdoppiarsi, di rendersi ubiquo e anche un po’ obliquo pur rimanendo sempre diritto, i sudamericani lo definirebbero un “hombre vertical”, nella sua integrità e interezza morale, altrimenti della vita che cosa ci resta attaccato? Tant’è che va e viene, va e torna, va e dà, che è solo un diverso punto di vista dello schema universale dai-e-vai.
Un paio di settimane fa Chicco ha aggiunto una nuova meta alla sua storia, s’intitola “La mano del santo”, è un giallo (www.cartabook.it, tre euro, sì, tre euro, da ordinare solo on line), che a lui riescono bene, come “Il mostro del lago di Lugano”.
Chicco l’ho conosciuto prima da avversario e poi da compagno, sul campo. Poi abbiamo battuto spogliatoi e club-house, condiviso caffè e cappuccini, ma non nel senso di frati, percorso fiumi, e non solo quelli di birra. Adesso siamo così amici che spesso ci basta il pensiero. Senza bisogno di tante parole. Se non, come stavolta, queste.
di Marco Pastonesi
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