Munster-All Blacks, a.d. 1978: una questione (anche) di cravatte

Marco Pastonesi ci racconta gli allenatori, i capitani e l’attesa di una sfida che è entrata nella storia del rugby

Tom Kiernan, la Volpe Grigia, li aspettava al ristorante. In piedi, apparentemente nervoso. Davanti a lui, venti sedie vuote. Neanche due ore, e i suoi ragazzi – Munster – avrebbero giocato contro la squadra più forte del mondo – All Blacks -. Rossi contro neri. Quel match Kiernan lo aveva studiato per sei settimane, giorno e notte, tutti i benedetti giorni, tutte le maledette notti. Fra una cosa e l’altra, adesso aveva sì e no venticinque minuti per ricordare il piano di gioco ai suoi ragazzi. Forse meno. Limerick era intasata dal traffico. I giocatori sarebbero arrivati al ristorante con i propri mezzi: auto, moto, forse bici o a piedi, bus di linea. E con i propri abiti. Soldi, Munster: zero.

 

In quel momento Jack Gleeson, l’allenatore degli All Blacks, era insieme con i suoi giocatori. Stava lasciando l’albergo vicino a O’Connell Street e salendo su un pullman per raggiungere lo stadio di Thomond Park. Calcio d’inizio alle 3 di pomeriggio. Ogni giocatore indossava una giacca nera con il colletto grigio chiaro, una camicia bianca e una cravatta nera con l’emblema della squadra, la felce argentata. Lyn Jeffrey, centro degli All Blacks, controllava che tutti i suoi compagni avessero la felce argentata al centro della cravatta, ben visibile.

 

Quando lo vide entrare nel ristorante, primo dei giocatori di Munster, Kiernan pensò di avere il capitano giusto. Donal Canniffe, mediano di mischia. Un numero 9 atipico, almeno per quei tempi: sembrava una terza linea, la quarta terza linea, il nono uomo di mischia. Ma non era tanto l’aspetto di Canniffe a impressionare Kiernan e i suoi compagni. Era piuttosto lo spirito. Una mattina del 1951, a Dromod, la mamma di Conal stava tornando a casa sulla sua nuova bicicletta quando venne travolta e uccisa. Lasciò marito e sette figli. Il settimo, neppure due anni, era Donal. Si trasferirono a Cork, dove il signor Canniffe, sergente, aveva una sorella, che si prese cura dei ragazzi. Quella donna non aveva paura di niente e di nessuno: una volta aveva contrabbandato revolver nascondendoli sotto le vesti. E Donal, quella donna, l’aveva vissuta come se fosse sua madre.

 

Gleeson aveva già affidato il ruolo di capitano a Graham Mourie nella Nuova Zelanda B che aveva fatto un tour in Argentina. Quando promosse Mourie negli All Blacks e gli assegnò subito i gradi di capitano, ai federali in cerca di spiegazioni non affidò un pensiero, o un giudizio, ma regalò una profezia: “Mourie sarà il più grande capitano di tutti i tempi”. La profezia suonava perlomeno azzardata: Mourie, terza ala, non aveva un gran fisico, e forse neanche una gran velocità. Però aveva il dono dell’ubiquità. E il potere del carisma. Non beveva, non fumava, non inseguiva donne. Era un contadino che leggeva “Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta”, che sapeva recitare Shakespeare parola per parola, e che trasformava il silenzio in un’arma irresistibile. Ed era l’unico che non condivideva la camera con un compagno. Qualcuno diceva che quella di Mourie fosse soltanto timidezza. La verità è che, per Mourie, i compagni sarebbero morti in campo volentieri.

 

In settantatré anni di rugby, nessuna squadra irlandese aveva mai battuto gli All Blacks. Gli All Blacks, scrivevano i giornalisti irlandesi, hanno inventato l’arte della vittoria, hanno elevato la vittoria ad arte. Tant’è vero che anche quando una partita prende una brutta piega, com’è come non è, gli All Blacks riescono sempre a raddrizzarla. Ma quel 31 ottobre 1978, a Limerick, le cose non sarebbero andate esattamente così.

 

di Marco Pastonesi

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