Un giovane collaboratore dell’organizzazione della corsa rosa che gioca nella Grande Milano. Racconta Marco Pastonesi
Taylor Phinney sembra una seconda linea, Cadel Evans ha la grinta di un flanker, Mark Cavendish potrebbe giocare tallonatore, Pippo Pozzato ha l’accento di un trequarti del Vicenza. Anche al Giro d’Italia c’è qualcosa di rugbistico. Paolo Condò, giornalista della “Gazzetta dello Sport”, ha l’aria di un pilone che ama raccontare antichi scontri alla Lupa di Frascati o al Molinello di Rho.
Poi, però, c’è un vero rugbista. Lo riconosci dal sorriso che regala. Anche dalla fiducia che ispira. E anche dai chili che non nasconde. Si chiama Fabrizio D’Amico, ha venticinque anni e gioca a Milano. Sponda: Grande Milano. Che per un vecchio Asr come me, equivale a parlare di Sampdoria a un genoano: kryptonite verde per Superman. Succede che un giorno il papà Roberto, estremo, al Cus Milano, prenda i due figli e li porti al campo. Fabrizio ha sette anni, Alessandro cinque o sei. Il primo allenamento al Pirelli: l’unico campo a Milano dove ci sia l’erba. Avanti e indietro a passarsi il pallone, prendendo confidenza con l’ovalità della vita. Poi negli spogliatoi. A fare la doccia. “Tutti insieme?”, chiede Fabrizio. Intende: tutti nudi insieme? Il tutti insieme del rugby comincia lì, così: nudi. E da quel momento diventa non solo un modo per lavarsi, e inevitabilmente a confrontarsi, ma anche una grammatica, una enciclopedia, un “plurale maiestatis” che ti guiderà, e ti disciplinerà, e ti condizionerà sempre. Nudi da titoli scolastici o bancari, nudi da alibi e scuse. Nudi alla meta.
Il primo torneo a Piacenza, di cui Fabrizio conserva vaghi ricordi. Il primo terremoto a Treviso, al Trofeo Topolino, un terremoto di emozioni e di brividi. Poi i campionati nelle giovanili, quello nell’under 20 contro Calvisano e le venete, i campionati in B, A1 e A, i derby con l’Asr (quest’anno noi dell’Asr li abbiamo battuti due volte su due). Il campo più caldo a Ospitaletto, a dispetto della latitudine. Il campo più lontano a Catania. Il campo più spoglio quello del Giuriati vecchio, vecchio per distinguerlo da quello paradossalmente indicato come Giuriati nuovo, che appare ancora più indigente e fatiscente. Il campo più bello a Piacenza, il Beltrametti, non tanto per le strutture, ma per l’ambiente e lo spirito.
Estremo, Fabrizio. Come dire: attore e regista. All’inizio di palloni al volo non ne becca uno, tanto da contarne i rimbalzi, poi acquisisce il senso della posizione, come se avesse finalmente sintonizzato un navigatore sotto la maglia, e da artigliere gioca al piede, e da fante partecipa alle scorribande alla mano, e da stratega cerca di leggere in anticipo le mosse degli avversari, e da placcatore tenta di opporsi a uomini lanciati in meta. Ma se si dovesse classificare la sua arte della guerra, allora “le battaglie aeree”. Si combattono in serie B così come al Sei Nazioni. Meno computerizzate. Ma addirittura più umane.
Chiunque di noi, nel suo piccolo, o nel suo lento, o nel suo poco, o nel suo scarso, è Richie McCaw. Con i giorni neri, che per McCaw sono quelli felici in cui indossa la maglia degli All Blacks, e che per chiunque di noi sono quelli impietosi in cui non ne va bene, o non ne va dentro, neanche una. Però anche con i giorni più fortunati e memorabili. Non è indispensabile giocare al Millennium, basta anche Lecco: un calcio all’ultimo e vittoria di un punto, e avrai sempre qualcosa di epico da raccontare. E non è indispensabile una vittoria, basta anche una sconfitta: come quella volta al Battaglini di Rovigo, contro il Rovigo, pronti-via sotto 12-0, e siccome la sera della vigilia tutti erano rasi al suolo a ridere e bere, tranne uno – Nicolò Silini attualmente ristoratore alle Colonne di San Lorenzo -, quell’uno dice “dimostratemi che sono un coglione a non essere venuto a fare casino con voi ieri sera”, e da quel momento, finalmente, si comincia a giocare, se non proprio alla pari, quasi.
di Marco Pastonesi
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