I Lions, la magia e le storie che li circondano… ma cosa erano pochi anni fa? Come sono “sopravvissuti”? E cosa c’entra tutto questo con l’Eccellenza? Ce lo dice Antonio Raimondi
I British and Irish Lions sono partiti per il loro Tour in Australia e faranno tappa ad Hong Kong per affrontare i Barbarians. Dall’avvento del professionismo ad oggi, i Lions hanno seguito un percorso, l’unico possibile in quest’epoca, per affermare il proprio diritto alla sopravvivenza, per salvare e perpetuare una storia che è iniziata centoventicinque anni fa. I Lions si sono trasformati economicamente da un’armata Brancaleone, che consumava risorse, ad un’azienda dell’area dell’intrattenimento, che produce profitto per sé ed ha una ricaduta economica importante sui paesi coinvolti in modo diretto dai loro Tour. Dal 1996 in avanti è un processo di trasformazione e crescita obbligato per chi non vuole rimanere indietro. Il Sei Nazioni ha moltiplicato il fatturato e l’impatto sull’economia dei paesi e in particolare delle città ospitanti, stimato da una ricerca Mastercard del 2010 in oltre 654 milioni di euro.
Diego Dominguez ricorda a volte, cos’erano il campionato francese e lo Stade Francais, quando si trasferì a Parigi: “alla prima partita c’erano trentadue spettatori”. Magari Diego esagera nel suo racconto, ma neppure troppo. Oggi il campionato francese è il più ricco d’Europa, ha appena prodotto sportivamente una finale di Heineken Cup ed è la terra promessa per i rugbisti di tutto il mondo, dove il club più “povero” in questa stagione aveva un budget di 6,2 milioni di euro, e il più ricco di quasi 35 milioni.
Il campionato inglese non si differenziava di molto dalla descrizione di quello francese fatta da Dominguez. Certo c’era il fascino della giornata al club, dell’attività outdoor, ma restava una cosa per pochi. Ora per BT (British Telecom) la Premiership vale un contratto per i diritti televisivi da 152 milioni di sterline e i club investono in stadi di proprietà.
Quando vogliamo, o forse quando vediamo il traguardo vicino, anche noi in Italia ci sappiamo fare. Il Sei Nazioni è business e siamo stati capaci di fare il salto dal Flaminio all’Olimpico. Un risultato importante, una vetrina per il nostro sport. Purtroppo però non siamo stati capaci di far crescere il nostro campionato. Lo splendido successo di Mogliano è stato possibile, perché il campionato si è avvicinato al virtuoso club veneto e non viceversa. Il torneo si è abbassato nei valori economici e in quelli tecnici. Colpa della crisi, è un alibi credibile che crolla una volta che si guarda all’estero, e basta fare zapping tra i canali televisivi in un sabato di maggio. Le colpe? Pensiamo che nessuno possa tirarsi indietro, magari qualcuno può affermare “l’avevo detto” ma non molto di più. Le parole, a cui far seguire i fatti, dovrebbero essere crescita e rilancio, ma ci stiamo avvitando su club che puntano sui giovani (per necessità perché spesso costano meno degli stagisti), sulla spending review, che il Governo Monti ci ha fatto conoscere, che significa contenimento dei costi, ma non certo sviluppo.
Le grandi trasformazioni devono partire da un cambio culturale capace di guidare le scelte e i conseguenti investimenti. Se vogliamo stare nel rugby professionistico, dobbiamo ragionare in termini di crescita, di sviluppo, e di risorse a disposizione. Le scelte sportive, che ci piacciono di più, vengono in secondo piano e il livello dipenderà dalla sostenibilità economica. Il nostro campionato era più vicino a quelli di Francia e Inghilterra, quando neppure sognavamo la possibilità di giocare nel Sei Nazioni. I grandi campioni dell’emisfero sud venivano in Italia (non stiamo per brevità ad analizzare perché i Kirwan, i Campese, i Botha giocassero in Italia) e le presenze negli stadi erano ben più numerose di quelle di oggi. Noi siamo rimasti fermi, gli altri, anche su una base di cultura sportiva differente, sono andati avanti.
Dovremmo considerare i club come “imprese” del settore intrattenimento, entrare in un mondo di concorrenza spietata, per convincere il pubblico a spendere una parte del proprio tempo libero nel rugby. Si deve contendere spazio agli altri sport, ma non solo. La concorrenza è multi piattaforma arriva da internet, dal cinema, dalla televisione, dalla playstation, dai libri, senza dimenticare che stiamo pure attraversando una terribile crisi economica. E’ una sfida affascinante, se la si vuole accettare, che altri, come abbiamo visto, hanno vinto, partendo da situazioni simili. Ci vorrebbe l’impegno e la collaborazione di tutti. Non è obbligatorio accettarla, perché c’è anche la possibilità di vivere bene nella “decrescita” che sarebbe la scelta di rimanere nell’ambito del dilettantismo puro, sicuramente migliore di un finto professionismo con le pezze al culo. Certo l’attività, per livelli, dovrebbe essere riorganizzata e resa adatta davvero al livello dilettantistico, su base provinciale e regionale.
di Antonio Raimondi
http://www.youtube.com/watch?v=KtEEjCdeh90
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