Laurent Benezech va in Senato in Francia a raccontare di un’organizzazione che coinvolgerebbe Berbizier e Lapasset. Ma non porta prove
Succede che un giovedì pomeriggio un ex pilone della nazionale francese (15 caps con la maglia dei galletti) si presenta davanti alla commissione d’inchiesta sul doping del Senato di Parigi. Lui è Laurent Benezech e si mette a parlare di lattine e di cortisone. Dice in quella sede che ai Mondiali sudafricani del 1995 ogni giocatore aveva le sue lattine e che non doveva dissetarsi da quelle degli altri: “Lo staff medico ci ha avvertito di non prendere quelle degli altri, ufficialmente per il rischio di malattia”. In pratica – dice – ognuno aveva un beverone di aiuti medici proibiti appositamente studiato.
E il cortisone dov’è? Salta fuori quattro anni dopo, quando il giocatore per una operazione a un occhio viene curato anche con quel prodotto e lui ha un flash-back: “Ero euforico, non sentivo più la fatica. Sensazioni che mi ricordavano un periodo della mia vita. Ho messo insieme i pezzi del puzzle e mi sono accorto che erano le stesse provate in Sudafrica. Ora ripensandoci sono convinto che le nostre prestazioni abbiano avuto un aiuto medico. E sono convinto fosse cortisone”.
Benezech poi punta il dito, molto in alto: “Il medico della nazionale era Marc Bichon e dubito che abbia potuto sviluppare un protocollo medico senza il beneplacito di Pierre Berbizier, allora ct della nazionale. Ma sono stato anche io allenatore e so che anche il ct non avrebbe preso questa decisione senza aver consultato il presidente federale di allora”. E chi era il presidente della FFR? Bernard Lapasset, oggi numero uno dell’IRB. Boom. In Francia, e non solo, i media danno ampio risalto alla notizia. D’altronde ce n’è abbastanza da configurare un’associazione a delinquere.
Il problema è che sono “solo” parole. Non c’è uno straccio di una prova, un pezzo di carta, nemmeno una voce “altra” che conferma la versione di Benezech. Nelle ore immediatamente successive alle sue dichiarazioni sono infatti giunte le smentite di Bichon (“Rigetto in blocco le parole di questo signore”) – e fin qui nulla di strano, la notizia sarebbe stata la loro assenza – ma anche quelle di un suo compagno di squadra al Mondiale del ’95, Emile Ntamack che ha parlato di “frasi irrispettose, che minano l’integrità dei giocatori presenti al torneo” e che “è facile parlare senza avere prove”.
Questo significa che quanto raccontato da Benezech siano solo storie inventate? Assolutamente no. Magari ha ragione, magari la verità è pure peggiore di quanto finora raffigurato. Ma non si va davanti a una Commissione del Senato a distribuire patenti di colpevolezza senza avere un qualche supporto che sostenga le tesi raccontate. Se la cosa è appena tollerabile per una intervista o per un libro diventa insopportabile in una sede così importante e ufficiale. Non è una questione di educazione e/o buone maniere e neppure di essere garantisti o colpevolisti. Il fatto è che un racconto del genere, se non provato, diventa un boomerang per la lotta al doping, una sorta di “esempio mediatico negativo” di cui sinceramente non si sente il bisogno.
Dice che però è importante che qualcuno parli, che rompa quel muro di omertà che da sempre circonda il doping. Vero. Ma dire che ti hanno somministrato del cortisone perché a distanza di quattro anni un’operazione ha risvegliato in te sensazioni che altrimenti non sapresti spiegare è davvero un po’ poco. Se Benezech sa è fondamentale che parli, ma alle persone giuste, seguendo altre strade che sono necessariamente lontane dalla ribalta e dalle luci del palcoscenico mediatico. Se sa qualcosa troverà sicuramente qualcuno disposto ad ascoltarlo negli uffici dell’Antidoping francese.
Il Grillotalpa
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