John Eales, una leggenda australiana che parte dall’Italia. E da Nonno e Nonna

Uno dei giocatori più forti di sempre, con origini italiane nemmeno troppo lontane. Marco Pastonesi ci racconta la sua storia

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Nonno. Lo chiamavano così: all’italiana. Perché Nonno era italiano. Si chiamava Ernesto Garrone, Garrone come il buono del libro “Cuore”, Garrone come la famiglia degli industriali presidenti della Sampdoria. Il nostro Garrone veniva dal Piemonte: origini umili, una casa fatta di due sole stanze, tanta fame a fargli compagnia in silenzio, un giorno s’imbarcò alla ricerca della fortuna, destinazione Australia. Trovò la fortuna: era un lavoro. Nei campi della canna da zucchero. Appena ricavò otto settimane di vacanza, il nostro Garrone risalì su un piroscafo, tornò in Italia, e chiese la mano di una ragazza che abitava in un villaggio a dieci minuti di distanza a piedi.
Nonna. La chiamavano così: all’italiana. Dopo che Carolina Imarisio aveva accettato la proposta di matrimonio di Ernesto Garrone, anche per sfuggire a un altro matrimonio, ma combinato, e con un uomo, e in una situazione, che non poteva proprio accettare. Giunta in Australia con Ernesto, Carolina imparò a leggere e parlare inglese studiando i menu scritti sulle lavagne delle trattorie e delle osterie. Il suo scioglilingua preferito era: “Corned beef and vegetables and roast beef with potatoes”, manzo sotto sale e verdure e roast beef con patate.

 

La prima casa di Nonno e Nonna era in una piccola e modesta pensione famigliare, dalle parti di Brisbane. La seconda casa di Nonno e Nonna era minuscola, ai confini del villaggio di Babinda. E solo perché, al salario di Nonno, Nonna aggiungeva i soldi guadagnati grazie al club degli italiani e a un negozietto. Ma quando scoppiò la Seconda guerra mondiale, sembrò scoppiare anche la famiglia Garrone. Ernesto, con il figlio maggiore Henry, rimase libero perché il suo lavoro fu giudicato importante per la guerra. Invece Carolina, con gli altri figli Rosa e Alf, fu costretta ad andare in un campo di prigionia. Ma lì Rosa stava meglio che a casa: c’era l’acqua, c’era la luce, c’erano i bagni, c’erano tre pasti al giorno. E c’era anche la possibilità, per Rosa e Alf, di frequentare una scuola cattolica. La sera, prima di addormentarsi, Carolina ringraziava Sant’Antonio da Padova per la troppa grazia. Solo quando la guerra finì, Carolina tornò a casa. Ma a malincuore.

 

Poi gli anni passarono. Nonno e Nonna costruirono una famiglia all’italiana: nei valori, nei racconti, nell’accoglienza. Vivevano tutti insieme. Di tutti i nipoti, ce n’era uno che ispirava loro ancora più tenerezza e affetto. Il quarto figlio di Rosa. Era alto, timido, silenzioso. Si chiamava John Anthony Eales: John Eales come il padre, Anthony come Sant’Antonio, ed è quasi superfluo dire chi avesse suggerito questo nome. Nonna e John Anthony erano inseparabili: lei gli parlava, gli raccontava storie, gli leggeva libri, giocava con lui, lo portava in giro per lunghe passeggiate.
Vent’anni dopo, John Eales si sarebbe rivelato prima come un campione di cricket, poi di rugby. Seconda linea e terza centro. Nei Brothers Rugby Club, quindi nei Queensland Reds, infine nell’Australia. Fino a diventarne capitano. E il più prolifico avanti della storia. Non a furia di mete, ma a forza di calci. Piazzati e trasformazioni. Laureato in Psicologia, poi manager. E ambasciatore del rugby.
Fra i soprannomi che gli sono stati attribuiti, c’è anche “Nobody”. Nessuno. Nel senso: nessuno è perfetto. Forse intendevano dire: neanche uno come Eales. Ma se non era perfetto, ci andava vicino. E fa bene al cuore pensare che, dietro i record di Eales, c’erano Nonno e Nonna. E un’Italia povera, ma valorosa.

 

di Marco Pastonesi

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