Domenica è morto. Estremo azzurro dal 1969 al 1980 con 26 “caps”, 15 campionati e 236 partite nella Rugby Roma. Marco Pastonesi ci regala il suo ritratto
Papà – Adolfo Guglielmo – magistrato, mamma – Paola – santa. Per forza: nove figli, cinque maschi e quattro femmine. Lui – Rocco – il quarto della serie. Il giorno in cui la famiglia Caligiuri lasciò la casa di Oppido Mamertina, piana di Gioia Tauro, provincia di Reggio Calabria, con le valigie di cartone, mancava solo il carrettino. Perché c’era il treno. Ma era lento, e quel viaggio, anche se in fondo era solo per Roma, prima alla Stazione Termini, poi al quartiere Mazzini, sembrò lungo un’eternità.
Papà magistrato, perdipiù con il difetto di essere onesto, così con tutte quelle bocche da sfamare si arrivava a fine mese tirati come una corda di mandolino. Per fortuna che la mamma, oltre che santa, era la più grande cuoca d’Italia. E moltiplicando pani e pesci, faceva da mangiare non solo per loro undici, ma anche per i loro amici che, lì, avevano trovato una seconda casa, una seconda mensa, una seconda famiglia. Il segreto della mamma è che andava a fare la spesa alle due di pomeriggio, quando il mercato smobilitava, e piuttosto che ricaricare le cassette di frutta e verdura, te le tiravano dietro. Lei acquistava proprio così: non a chili, ma a cassette e, se solo fosse stato possibile, a camionate, tanto era sicura che nella credenza non sarebbe rimasta neanche il ricordo. Comunque, per la storia: la sua specialità erano le cotolette alla milanese, ovvero due etti di carne, il resto era pane grattato impanato una decina di volte fino ad acquistare un volume, un profumo e un aspetto pressoché regali. Insomma, un’ombra di carne, tant’è che era tenerissima, ma una montagna di roba.
L’infanzia è decisiva per capire la traiettoria di una persona, fosse anche un fenomeno come Rocco Caligiuri. La scuola: seconda media, abbandonata, perché a italiano e matematica preferiva dribbling e cross a Villa Ada, poi licenza media in Calabria, forse con il solenne giuramento di non farsi mai più vedere in un’aula e dietro a un banco, giuramento mantenuto, perché da quel momento la sua scuola fu la strada, fu il lavoro, fu il campo. Campo da calcio. Campo da atletica. E campo da rugby. Rocco, del calcio, aveva il piede: sensibile e potente. Rocco, dell’atletica, aveva la velocità: 11”3 sui 100 metri. E Rocco, del rugby, aveva tutto: il piede, la velocità, soprattutto lo spirito, l’anima, la filosofia. Nato per giocare a rugby anche se, fino al giorno in cui entrò per la prima volta all’Acqua Acetosa, pensava che il pallone ovale fosse solo la deformazione professionale di uno rotondo.
Rocco, che ha cominciato a fumare a quattordici anni, e non ha più smesso. Rocco, che di capacità polmonare aveva sette litri, più o meno come Fausto Coppi. Rocco, che la prima partita in Nazionale l’ha fatta perché il suo idolo, Angelo Autore, si era infortunato. Rocco, che quando il c.t. Invernici lo ha chiamato, si è rimpicciolito tanto da rendersi invisibile, in panchina.
Rocco, che è stato il primo estremo italiano a contrattaccare. Rocco, che ha giocato anche contro Gareth Edwards e Phil Bennett e JPR Williams. Rocco, che contro una rappresentativa sudafricana, praticamente gli Springboks, ha messo dentro tre drop, a lunghissimo imbattuto record mondiale. Rocco, che poi è stato battuto da un sudafricano, che in una partita ha infilato cinque drop e subito dopo ha smesso di giocare, e questo a Rocco non è mai andato giù, si chiedeva “Ma non poteva smettere prima?”. Rocco, che quando c’era da placcare, placcava duro, finché una volta ha incontrato una bestia di due metri, seconda linea, che rompeva le linee difensive e spaccava le ossa, “noi cercavamo di scappare e lui, pallone in mano, veniva a prenderci”. Rocco, cui prima di una partita Villepreux ha detto “Roccò, tu lo sai che devi fare”, lui gli ha risposto “E no che non lo so che devo fare”, ma Villepreux, placido, gli ha spiegato “Non lo sa nessuno, ma fallo, e bene”. Rocco, specialista in totodonne, senza dover entrare nei dettagli.
Rocco Caligiuri era il rugby del Novecento. In tutto. E per tutto.
di Marco Pastonesi
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