Antonio Raimondi fa il ritratto dell’uomo che ha riportato la selezione britannica alla vittoria dopo 16 anni
Ora che la piena delle emozioni è terminata e gli eroici Lions sono tornati a casa, si possono fare alcune considerazioni sul Tour del 2013, che ha consacrato la selezione britannica come una delle realtà più importanti del rugby professionistico, nonché un caso unico a livello planetario.
La natura dei Lions pone al capo allenatore e al suo staff problemi, che devono essere affrontati con sicurezza e rapidità, perché non si hanno i tempi a disposizione dei club professionistici e neppure quelli delle nazionali, che nel rugby, hanno l’appuntamento più importante ogni quattro anni e quindi possono, pur con la pressione di grandi tornei e test match, seguire un programma di crescita quadriennale. In meno di tre mesi ti giochi tutto, dovendo gestire una pressione pari a quella della coppa del mondo. Proprio per questo i Lions possono essere considerati un laboratorio, un campo d’osservazione per chi si occupa di sport professionistico e, forse, anche per chi, più in generale, si occupa di gestione delle persone.
Warren Gatland è stato il comandante vincente della spedizione, aggiungendo la serie con l’Australia ai successi in Heineken Cup, Premiership e Sei Nazioni, tutti con la “s” in fondo del plurale inglese. Sono successi che collocano l’allenatore neozelandese tra i grandi coach di rugby, ma verrebbe anche da aggiungere che starebbe bene anche nel gotha di tutti gli sport.
Nello sport professionistico, non può che essere così, il metro di giudizio è la vittoria, ma tra i grandi vincenti, c’è vittoria e vittoria, così come il suo sapore non è sempre lo stesso e a volte può essere amaro o semplicemente difficile da gustare, com’è successo allo stesso Gatland sabato scorso a Sydney: “Forse in due o tre settimane – ha detto il coach neozelandese – potrò trovare il piacere di successo, ma al momento non l’ho sentito a causa delle critiche che mi sono state portate”.
Critiche al vetriolo, le ha definite Gatland, che è stato comunque bravo a maneggiare la pressione che gli si è scaricata addosso, per la scelta di lasciare fuori dall’ultimo decisivo test Brian O’Driscoll. Critiche che non sono una novità, è sempre stato così, fa parte del gioco, se pensiamo al nostro sport nazionale, c’è ancora chi ricorda la staffetta Mazzola-Rivera, che ha spaccato l’Italia, non solo sportiva, ai mondiali del 1970.
La novità, che pone inediti interrogativi ai selezionatori, è la nuova comunicazione, banalmente twitter espone molto più rapidamente e a un pubblico più ampio alle critiche e allora ci vuole forse più coraggio e determinazione, quando si devono fare delle scelte, le classiche “tough calls” come dicono gli inglesi. Gatland ha probabilmente fatto la scelta più difficile della sua carriera, escludendo O’Driscoll. Non è stata la prima, perché con le debite proporzioni, anche chiudere con una leggenda gallese come Martyn Williams, per puntare sul più giovane capitano Sam Warburton, non è stato facile e neppure scevro da critiche negative. E’ sull’etica e la forza morale, che un allenatore, può affrontare anche le scelte più dure, guadagnandosi indipendenza.
Gatland ha dimostrato nel corso della sua carriera, che vincere è fondamentale, ma al tempo stesso, il prezzo da pagare non può essere di andare fuori dallo spirito sportivo e del rispetto delle regole. Tra le chiamate più difficili, in senso etico, c’è quella alla Coppa del Mondo del 2011, quando dopo l’espulsione di Warburton, Gatland ha resistito alla possibilità di “simulare” l’infortunio di uno dei piloni rimasti per forzare il passaggio alla mischia no-contest. Ci ha pensato, ma ha scelto e imposto allo staff e alla squadra di rimanere nelle regole, di continuare a giocare nella legalità. Una scelta, che unita ai comportamenti quotidiani, ha sicuramente rafforzato la sua reputazione e di conseguenza la possibilità di fare scelte difficili, a volte davvero dolorose.
La questione morale, non è secondaria, e qui divaghiamo consigliando un approfondimento sul tema, attraverso un libro che l’amico e collega, Flavio Tranquillo ha scritto insieme a giudice Marco Conte: “I dieci passi – Piccolo breviario sulla legalità” . Lo sport è toccato, per la comune passione per il basket dei due autori, ma più in generale possiamo dire che ispira a scegliere di evitare certi inquinamenti, presenti nello sport, anche nel nostro.
Tornando a Warren Gatland, la sua grandezza, si può misurare, seguendo e approfondendo un commento che ha fatto Vittorio Munari durante la telecronaca. “Un selezionatore, segue un processo di scelte che si basa su alcuni parametri definiti, derivati dall’esperienza. La selezione finale è quindi generalmente una conseguenza diretta e molto spesso evidente. Tuttavia sono gli aspetti periferici della selezione, che disturbano e rendono difficile questo processo”.
Portando l’esempio del caso O’Driscoll, Gatland ha seguito i parametri di selezione che aveva prefissato, senza farsi influenzare da quei disturbi periferici che sono più forti quanto minore è l’indipendenza del selezionatore. Infatti, Gatland poteva farsi influenzare dalla prevedibile pressione dei media (avesse scelto O’Driscoll, nessuno l’avrebbe criticato) oppure dallo stesso carisma di O’Driscoll (non avrebbe avuto la necessità di comunicare la sua decisione al giocatore e avrebbe trovato la compiacenza degli altri compagni). Potete trovarne quanti ne volete di questi disturbi, se poi pensate a situazioni in cui vi siete trovati voi a essere “selezionatori” potete comprendere nell’intimo il problema.
Gatland ha confessato la dolorosità della sua scelta, ha messo la mano sul cuore, ma ha poi deciso con la testa. Proprio per questo fare il selezionatore è così difficile, sempre in bilico tra cuore e testa e schiacciato dalla pressone. Fortunatamente Gatland ha vinto, se avesse perso, sarebbe stato massacrato, in un processo mediatico senza difesa, senza diritti e senza dei giudici.
di Antonio Raimondi
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