INTERVISTA ESCLUSIVA – Nel 2013 il ct campione del mondo ha rilasciato finora una sola intervista. E la seconda è con OnRugby
Per chi non è mai venuto in Nuova Zelanda, questo paese è esattamente come lo descrive chi lo ha visitato o come l’immaginario collettivo pensa che sia: tutto ruota intorno al rugby. Unico paese al mondo con il Galles ad avere il rugby a 15 come sport nazionale, la Nuova Zelanda respira, vive, mangia e beve la palla ovale in tutti i suoi aspetti, dalla mattina alla sera. Difficile trovare chi non abbia “mai” giocato una partita, almeno da piccolo nelle categorie junior, e difficile trovare chi non sappia chi siano Richie McCaw e Dan Carter.
Come ogni visitatore in questa lontana terra dalle lunghe nuvole bianche, rimasi sconvolta dalla quantità di campetti di rugby sparsi nelle campagne delle due isole, campetti che hanno visto nascere talenti come lo stesso capitano degli All Blacks, piuttosto che Colin Meads, Sir Brian Lochore, Buck Shelford, Andrew Hore. Paesini sperduti tra le montagne e le valli coperte di macchiette bianche che tra due anime e quattro mucche hanno insegnato a passare la palla a uomini che hanno segnato la storia rugbistica di questo paese abitato da quattro milioni di persone e, scusate l’arroganza, anche la storia del rugby mondiale.
Mi ritrovo spesso a visitare le club house di club dal nome maori impronunciabile per fermarmi ad ammirare magliette nere con il colletto bianco e la felce argentata indossate da leggende che hanno infiammato il sobrio pubblico kiwi in cento anni di storia. Ma ciò che ancora oggi trovo sorprendente è la facilità con cui queste leggende le incontri per strada, al pub, all’università, ad un evento, ad un compleanno, e li ti stringono la mano, ti sorridono e ti parlano dei “tempi che furono” di quando il rugby delle provincie era la spina dorsale di questo movimento e che ogni settimana si potevano ammirare i più forti al mondo giocare per i propri colori.
Io in undici anni di vita neozelandese di leggende ne ho viste, conosciute, apprezzate, ascoltate e alcune ho la fortuna di chiamarle anche amiche, quindi non mi impressiono più. Per me sono persone normali, con un lavoro, una famiglia e centinaia di aneddoti e storie che farebbero diventare rossi anche i lettori di questo sito. Eppure c’è una persona, una sola, che ancora oggi alla sola vista mi fa balbettare, e che mi ha fatto abbassare lo sguardo quando mi ha stretto la mano entrambe le volte che l’ho incontrato. Non ha mai indossato la maglia nera, ma l’ha resa la più preziosa maglia di rugby dell’era moderna. E per capire la fortuna che ho avuto nell’intervistarlo, la nostra chiacchierata inizia cosi:
Lui mi chiede: ”Per chi è questa intervista?” ed io rispondo: “Per una piattaforma online di informazione italiana specializzata sul rugby mondiale. Io scrivo dalla Nuova Zelanda e l’intervista sarà pubblicata su internet in italiano”. “Come ti chiami?”. “Melita”. “Melita come?”. “Melita Martorana e vorrei ringraziarla per questa opportunità, sono onorata”. “E fai bene. Questa è la seconda intervista concessa nel 2013 e la prima non è andata benissimo, quindi stai attenta.” E qui i miei più terrificanti trenta minuti di vita rugbistica sono iniziati, guardandolo negli occhi.
Lui è l’allenatore degli All Blacks Campioni del Mondo nel 2011, Sir Graham Henry.
Graham questo è stato il primo anno, di ritorno, con la franchigia dei Blues, come è andata?
Sono qui perché Sir John Kirwan mi ha chiesto di far parte dello staff di allenatori. Lui non ha allenato a livello Super Rugby ed io sì, quindi voleva che portassi questa esperienza nel gruppo. Mi sono trovato bene, non sono però impegnato full time, per esempio non vado in tour con la squadra, anche se sono stato ad una partita in Australia. La squadra ha migliorato dallo scorso anno, ha iniziato bene ma si è persa nella parte finale del torneo quando c’era l’opportunità di conquistare i playoff. La pressione e l’aspettativa nell’entrare nella fase finale del torneo sono state negative per la squadra, che non ha retto mentalmente. Devono avere l’abilità di affrontare una pressione simile, rimanendo concentrati sulle procedure e sui sistemi di gioco e applicarsi bene. Certo facile a dire, difficile a farsi.
È per via di giocatori così giovani?
È una parte del problema. Diciamo che si devono attrezzare con delle qualità di forza mentale che permettano di focalizzarsi su come giocare bene piuttosto che sul risultato finale, e ciò deve essere condiviso da tutta la squadra.
L’anno prossimo ritorni con i Blues?
Probabilmente sì!
E qual è l’obiettivo per il prossimo anno, qualificarsi per i playoff?
Prima di tutto migliorarsi e poi risultati come i playoff vengono da soli se si continua a far bene. Credo che nell’immediato la cosa più importante sia rinforzare la squadra per il prossimo anno. Anthony Boric, Ali Williams e Rene Rangers quest’anno lasciano la franchigia per andare all’estero, e sono tutti e tre o ex o attuali All Blacks. Abbiamo bisogno di rimpiazzare i giocatori seniores e questo deve essere il focus primario dopo l’ultima partita della stagione contro i Chiefs.
Benji Marshall potrebbe essere una vera possibilità per i Blues?
Credo che sia stato ben documentato nei media che Benji dovrà presto una decidere se giocare League o Union. È stato con i Tigers per nove anni ed ha detto che non vuole giocare contro di loro, dimostrando così grande lealtà al club. Quindi se deciderà di andare via, sarà sicuramente per passare al codice Union.
Sei stato allenatore dei Blues in passato. Prendiamo il 2003, che è anche l’ultima volta che i Blues hanno vinto il Super Rugby. Che differenze hai trovato tra l’ambiente di allora e quello di oggi?
Quella era una squadra molto costante quando abbiamo iniziato aveva forti giocatori. I Blues hanno iniziato vincendo due titoli di Super Rugby nel 1996 e nel 1997 e poi nel 2003, quindi quello era un gruppo di giocatori stabile rispetto a questo che è invece un gruppo giovane e che non ha avuto molto successo negli ultimi dieci anni, e che quindi hanno bisogno di tempo per divenire solido. Questo è un processo che richiede tempo, e siamo agli inizi.
Come è possibile che nella regione di Auckland ancora si debba discutere su come trovare giovani giocatori? Auckland ha il bacino più grande rispetto al resto del paese eppure negli ultimi dieci anni si è sofferto. I Blues hanno un programma dell’Alto Livello che rimedi a questo?
Il programma c’è ed è iniziato. Charlie Piatau, Steven Luatua e Francis Saili sono entrati nel giro degli All Blacks. Bisogna costruire su questo per il futuro.
Senti sei anche consulente per la nazionale Argentina che partecipa al Rugby Championship, come ti trovi? Ti piace l’esperienza?
Ah certo altrimenti non lo farei! (ridendo, e Ted non ride). Mi piace il popolo argentino. Mi piacciono i giocatori argentini, c’è un gruppo di giovani giocatori con una bella mentalità e mi piace lavorare con gli allenatori della nazionale. Sono comunque delle grosse sfide, voi gente italiana ne sapete qualcosa. Sono circa decimi nel ranking mondiale, probabilmente intorno al ranking dell’Italia e giocano contro le prime tre squadre al mondo, ovvero Sudafrica, Australia e Nuova Zelanda. Per cui sì, è una sfida importante, inoltre non hanno nessuna forma di rugby professionistico in casa e tutti i giocatori della nazionale giocano all’estero in Francia ed Inghilterra. Per poter sviluppare il rugby devono iniziare a sviluppare il rugby professionistico in Argentina. Purtroppo per i soldi non è un periodo buonissimo ed è difficile stabilire un programma professionistico senza dei seri finanziamenti di supporto. Ma, come ho detto sono delle bravissime persone e mi sto divertendo molto in compagnia sia dei giocatori che dello staff.
Santiago Phelan ha solo detto cose molto buone a tuo riguardo quando l’ho intervistato. Sei consulente per la nazionale, sei anche il consulente per il programma dell’Alto Livello?
No. Anzi sì lo sono (ridendo). Ho lavorato con il loro direttore dell’Alto Livello Pancho che come saprai ha lavorato in Italia. Hanno istituito cinque centri dell’Alto Livello in altrettante province.
A volte sento dire che la forza dell’Argentina è proprio il fatto che questi giocatori giocano in tornei importanti come il Top14 e che se dovessero giocare in Argentina perderebbero qualità. Sei d’accordo?
Il problema principale è che la maggior parte dei nazionali gioca per squadre francesi e per il Rugby Championship, che si gioca da Agosto ad inizio Ottobre. Il problema a monte è se questi giocatori vengono rilasciati dal proprio club. Quindi i giocatori argentini necessiteranno di assistenza nel decidere dove vogliono giocare. Se il professionismo verrà introdotto in Argentina, questi atleti dovranno giocare in un torneo professionistico e l’unico torneo a rigor di logica è il Super Rugby, e del resto la SANZAR li ha già accettati nel Rugby Championship. Ora, come si organizza il torneo da un punto di vista logistico se dovesse includere una o più squadre argentine, questo non lo so. La decisione spetta agli amministratori. Magari due Conference, una Argentina/Sudafrica e una Australia/Nuova Zelanda, le cui migliori squadre si incontrano poi in una fase di playoff. Non so proprio. Il rugby argentino si rafforzerà se viene introdotto il professionismo in casa ma devono avere più di una squadra professionistica, mentre ora hanno solo la nazionale. Inoltre bisogna verificare se hanno anche il supporto finanziario. Al momento di sicuro hanno un forte campionato amatoriale di club, ma la qualità del rugby non è alta abbastanza da supportare una nazionale a livello internazionale contro le migliori squadre al mondo. Questo è necessario fare e speriamo si possa avverare dopo la coppa del mondo del 2015.
Ti siederai nel box degli allenatori quest’anno quando l’Argentina gioca contro gli All Blacks?
(ridendo) dove mi siedo non è importante. A volte sì, mi siedo nel box degli allenatori. L’anno scorso ero sotto contratto con la NZRU per allenare gli allenatori ed aiutare gli allenatori delle franchigie, mentre quest’anno che ho un contratto con i Blues e non più con la NZRU ho la libertà di aiutare ad allenare la nazionale Argentina ed è ciò che farò quest’anno.
Devo chiederti un paio di domande sugli All Blacks. Ho letto il tuo libro, che è un viaggio molto intenso nelle tue emozioni e nei ricordi di una vita passata nel rugby. C’è qualcosa dei tuoi otto anni con gli All Blacks che non è presente in quel libro?
No!
Ci hai detto proprio tutto?
(ridendo) probabilmente, non so, non ricordo! Tutto ciò che è importante è in quel libro. Il libro percorre quaranta anni del mio passato nel rugby, che includono otto anni con gli All Blacks. Ne sono molto orgoglioso perché è un racconto onesto e diretto di ciò che è successo. Non è mai stato scritto con intenti critici, anche se contiene passaggi che possono apparire polemici, ma che semplicemente raccontano ciò che è successo. Per esempio la coppa del mondo del 2007 e l’arbitro di quel quarto di finale. Ho scritto quel capitolo a suo tempo, chiamiamolo cosi, senza sapere che poi sarebbe diventato un libro. Quel capitolo fu scritto perché faceva parte del mio report per la Federazione Neozelandese di ritorno dalla Francia.
Durante il dramma del dopo 2007 con tutto ciò che ruotava intorno al nuovo appuntamento come allenatore degli All Blacks tra te e Robbie Deans, c’è stato qualcuno che ti ha detto qualcosa di importante che ti è rimasto dentro?
No, non credo, non mi viene in mente nulla.
E tua moglie?
A beh mia moglie è diverso. Comunque sono stato fortunato durante il periodo che ho allenato gli All Blacks ad avere intorno un gruppo manageriale di supporto molto forte ed unito, concentrato nello migliorare professionalmente insieme. Puoi andare in giro per il mondo e visitare club come i NY Giants, il Manchester United o una squadra di calcio Italiana, però credo ancora che il miglior programma di sviluppo professionale sia lo stare insieme per discutere dell’alto livello, lo sviluppo del rugby, lo sviluppo dei giocatori e dello staff. Abbiamo anche formato giocatori di altissimo livello che hanno aggiunto tantissimo nel contesto della crescita intellettuale del gruppo stesso. Gente come Richie McCaw, Daniel Carter, Conrad Smith, Ruben Thorne, Mils Muliaina, Kevin Mealamu ha dato molto al gruppo, e la loro capacità di farsi gruppo e poter parlare di sviluppo personale, dell’ambiente del rugby, dello sviluppo professionale della squadra, è stato estremamente importante. Si impara molto dalle “proprietà intellettuali” di un gruppo, che così conserva informazioni che vengono condivise al suo interno. Ed un gran numero di allenatori professionisti viaggia in giro per il mondo per cercare cose del genere. Noi siamo fortunati abbastanza da aver tutto dentro casa. Ma sai sono anche stato sposato con la stessa persona per quarantatré anni e ci si capisce, il più delle volte. Sapere che le cose a casa vanno bene e che hai una relazione felice con chi ti aspetta a casa rende il tuo lavoro più facile.
Credi che il fatto che tua moglie sia un allenatore di netball a livello internazionale l’abbia aiutata a capire la pressione cui eri sottoposto?
Assolutamente sì. Lei ha allenato la nazionale femminile di netball del Galles e poi viene da una famiglia molto coinvolta nel rugby. Il padre e i due fratelli hanno dato molto al rugby di livello provinciale rispettivamente come allenatore e giocatori. Essendo cresciuta in una famiglia devota al rugby, capisce il gioco e soprattutto riconosce il talento quando lo vede e conosce la pressione a cui si è sottoposti a livello internazionale.
Qual è la differenza tra i tuoi All Blacks e gli All Blacks di Steve Hansen?
Credo che la cosa importante per gli All Blacks sia la continuità delle “persone”. E per cento anni non c’è sta nessuna continuità di persone. Noi allenatori allenavamo per due o massimo quattro anni, finivamo e poi un nuovo gruppo di allenatori e staff veniva scelto e si ricominciavano da capo. Ci vogliono circa diciotto mesi prima di sedersi a tavola sentendosi a proprio agio. Da quando mi hanno dato l’incarico di allenatore non ci sono stati grandi cambiamenti negli ultimi dieci anni. Wayne Smith, che è stato allenatore dal 2000 fino al 2002, e il sottoscritto non ci siamo più, un altro paio di persone sono andate via come la Dottoressa Deb Robinson, ma la maggior parte sono ancora lì. Steve Hansen è stato assistente per otto anni ed ora è l’allenatore in carica. I sistemi che abbiamo introdotto sono ancora lì, la mappa diciamo è la stessa ma cerchi sempre di migliorarne i dettagli. Non si trova mai la perfezione quindi stai sempre lì ad aggiustare, a smussare gli angoli. La vera chiave del successo degli All Blacks è la continuità. Richie è capitano da…non so più da quanto, da sempre, otto anni. Dan Carter è stato il playmaker da sempre, Conrad Smith, Kevin Mealamu, Andrew Hore ci sono da sempre. Quindi hai continuità nelle persone. Ma è importante anche continuare a migliorarsi ed è quello che gli All Blacks fanno.
Sei ancora in contatto con alcuni di questi giocatori tipo Richie o Dan Carter? Ti chiamano per chiederti suggerimenti?
No, non più. Se ci vediamo naturalmente si parla, si discute o a volte si resta in contatto per corrispondenza. Grande rispetto, ricordi fantastici, ma si va avanti, ci si muove. Magari con un paio ci si vede più che con altri perché vivono nella stessa regione o si è invitati a certi eventi insieme. Ma ora ognuno ha la propria famiglia e tante cose da fare. Però quando ci si vede da qualche parte e ci si guarda negli occhi, lo sai, insomma lo sai ciò che si è passato insieme durante tutto quel periodo.
Hai mai pianto per la vittoria nella coppa del mondo del 2011?
No, naturalmente no!
Perché gli uomini duri non piangono?
Sono cento anni che non piango!
Senti negli otto anni con gli All Blacks tu hai affrontato l’Italia quattro volte, nel 2004, 2007 e due volte nel 2009. In questi otto anni l’Italia ha avuto come allenatori John Kirwan, Pierre Berbizier e Nick Mallet. Mi dai un’idea di come hai preparato la squadra quando hai dovuto affrontare tre differenti modi di giocare nell’arco degli anni?
Ho allenato il Galles alla fine degli anni Novanta e inizio 2000 e da allora il rugby italiano è cresciuto notevolmente. Avete più partite da giocare con il Sei Nazioni, quest’anno avete battuto la Francia e non è stata la prima volta. State entrando nella fase in cui cominciate a giocare un rugby più “aperto” diciamo, in cui tutti e quindici i giocatori sono coinvolti, non solo il pacchetto di mischia, come quando il gioco era solo per gli avanti per cercare di tenere il punteggio basso ed i trequarti erano sempre una linea difensiva che a malapena passava la palla. Ora invece stanno maturando come squadra completa e stanno diventando molto competitivi. Il Sei Nazioni ha permesso all’Italia di evolvere e credere più in se stessa. Ed è esattamente ciò che l’Argentina cerca di fare con il Rugby Championship. Ma ci vuole tempo e pazienza per creare l’ambiente giusto, le persone giuste, la mentalità giusta. L’Argentina vuole veramente cercare di emulare ciò che l’Italia ha fatto nel Sei Nazioni.
Di Melita Martorana
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