Marco Pastonesi va nella città degli Estensi e ci racconta una storia di rugby lunga decenni. Con alcuni problemi attualissimi
Centodieci per settanta: è la sua lunghezza per la sua larghezza, in metri. Trentaquattro: è la sua vita, in anni. Il Trevisani di Ferrara: il campo da rugby del Cus Ferrara, intitolato ad Agostino Trevisani, storico presidente del Centro universitario sportivo estense. Uno dei più belli d’Italia.
Ciascun campo da rugby dà i numeri. E i numeri servono a dare una dimensione, nello spazio e nel tempo. Ma un campo da rugby è infinitamente più di un rettangolo di terra e cielo: è storia, e storie, è tradizione, e tradizioni, è anche geografia e geologia, è un po’ perfino zoologia se si pensa a quelle bestie – la qualifica è affettuosa – che lo frequentano o lo abitano, è soprattutto un’area culturale. Perché lo sport è cultura, oltre che salute e socialità, oltre che gioco e divertimento, oltre che educazione e comunicazione. Lo sport è universitario.
Al campo del Cus Ferrara stanno modificando i numeri. La lunghezza, tanto per cominciare: a un’area di meta sono stati tagliati 15 metri, poi sono stati spostati i pali per condividere la perdita, sette metri e mezzo da una parte e sette e mezzo dall’altra. Non è una tragedia, perché il campo mantiene le sue misure regolamentari. C’è di molto peggio. Ma si teme che questo possa essere l’inizio di una fine, se il taglio significa sacrificare il rugby a favore di altro. Che non è detto che sia soltanto sport.
Il Cus Ferrara è un’associazione sportiva dilettantistica e un ente di promozione sportiva. Lo sport per lo sport. La prima notizia del Cus Ferrara risale a un documento del 1947, ma prima, nel Ventennio, si chiama Guf. Il secondo dopoguerra è quando quel poco è stato distrutto, si riparte da zero, e ci si accontenta anche di niente. La povertà diventa arte di arrangiarsi e prova di carattere: palestre scolastiche in affitto, campo della Spal (calcio) eccezionalmente per ospitare una partita di hockey su prato, fino al primo campo, esterno, da basket, nel cortile della Casa dello studente. Oltre a hockey su prato e basket, il Cus Ferrara accoglie atletica, rugby, pallavolo e tennis, ma le prime vittorie ai campionati nazionali arrivarono con il tiro a segno.
Nel 1969 il Cus Ferrara viene rifondato: le basi sono atletica e rugby, la sede è 34 ettari nel Parco urbano, subito fuori dalle mura. A metà fra il giardino dell’eden e l’arca di Noè. Qui salgono tutti, dai canottieri fino ai triatleti. Avanti, c’è posto per tutti. Per tutti, o quasi. Tre palestre polivalenti e due per il fitness, sala pesi, tre campi da calcio, due da rugby (ce n’è anche uno da allenamento), quattro da tennis, un percorso di 18 buche per il golf. Più altro. E altro ancora in arrivo.
Il rugby – la prima partita a Ferrara, sempre sul campo della Spal, è del 1928 fra Bologna e Padova – comincia a starci stretto. Perché sono in 300, i rugbisti: la prima squadra che gioca in Serie B, le giovanili dagli Under 6 fino agli Under 20, gli old, anche una squadra che partecipa ai campionati degli amatori extra Fir e una di rugby femminile battezzata Le Velenose.
Il rugby, a Ferrara, è poco spallino, ma ha molte spalle larghe. Da Rovigo a Ferrara giunge, negli anni Cinquanta, quasi in missione, Maci Battaglini. A Ferrara, e anche lui da Rovigo, nei primi anni Ottanta predica Doro Quaglio, che di Maci è stato allievo. Stessa competenza, stessa passione, stessa grinta. Doro riesce a tirare fuori dai suoi ragazzi quello che neppure loro sospettano di avere. L’eredità ovale è trasmessa a quelli che oggi si preoccupano che il rugby venga limitato, prima negli spazi e poi nei contenuti. Un piano di organizzazione comunale stabilirà, a metà ottobre, le nuove aree verdi. Tra cui anche il campo da rugby, già ridotto. E siccome i rugbisti non sanno stare con le mani in mano, hanno preparato progetti per garantire più spazi per tutti. Finora rifiutati, a prescindere. Così per i cussini rugbisti, abituati a giocare alla mano, al largo, e a sostenere, sempre, sembra una partita difficile da affrontare.
di Marco Pastonesi
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