Australia, il malato non immaginario del Rugby Championship 2013

Con l’aiuto di qualche statistica, cerchiamo di capire cosa ancora non va nella banda McKenzie

ph. David Gray/Action Images

Che non sarebbe stato facile, questo lo si sapeva. Ma che sarebbe stato così difficile, forse neanche il più pessimista l’avrebbe potuto immaginare. Alla vigilia dell’ultimo turno del Championship 2013, la banda di McKenzie si presenta con appena 4 punti in classifica, frutto di un record negativo di quattro partite perse e soltanto una vinta. L’ex allenatore dei Reds, certamente stimato e apprezzato dall’ambiente ovale australiano, aveva saputo catalizzare su di sé molte attenzioni e aspettative, convertendo in sensazioni positive tutto ciò che il capro espiatorio Deans aveva lasciato dopo la sconfitta contro i Lions, casus belli ideale per cacciare un neozelandese mai completamente digerito. Se poi quel calcio di Beale allo scadere del primo Test fosse entrato, magari non ci sarebbe nemmeno bisogno di questo pezzo, ma la storia, anche quella ovale, non si scrive coi “se”, e pare allora doveroso cercare di interrogarsi sul pessimo torneo dei canguri. Facendoci aiutare magari da qualche statistica.

 

Dopo cinque partite giocate, le mete segnate sono appena cinque, mentre quelle subite ben sedici. Partiamo dalla difesa, fase nevralgica per fare bene nell’alto livello. Il dato che più balza all’occhio scorrendo qualche numero, è certamente quello dei turnovers concessi: ben 63, per una media di più di 12 a partita. Incomprensioni, passaggi mal portati, grillitalpa subiti e banali errori di handling che trasformano l’azione da offensiva a difensiva ma soprattutto evidenziano uno dei limiti maggiori della squadra, la difficoltà di predisporsi e riposizionarsi per la fase difensiva quando l’ovale cambia possesso, che comporta la rottura del gioco e il concedere buchi profondi. Per quanto riguarda invece i placcaggi, se il dato generale è in linea con quello delle altre squadre con una percentuale di interventi riusciti dell’ 87,8%, a far riflettere è invece il fatto che tra i primi dieci migliori placcatori del torneo vi sia solamente un Wallabies, Hooper, a quota 45. In una classifica che comprende Whitelock, Read, Matera, Leguizamon, Retallick e Vermeulen, latitano altre terze e seconde linee australiane. Oltre a ciò, nei match si sono evidenziate spesso amnesie difensive non da poco, con miss match favorevoli concessi e ultimi placcaggi falliti.

Anche le statistiche della fase di attacco non sono confortanti. L’Australia ha preso solamente 18 buchi profondi, a fronte dei 33 del Sudafrica e dei 28 della Nuova Zelanda, e ha battuto nell’uno contro uno solamente 63 difensori, quaranta in meno della Nuova Zelanda. Ma complementare a queste cifre, che prese di per sé dicono gran poco, è il dato sul minutaggio di possesso, spesso a favore dell’Australia nelle singole partite. Insomma, i palloni ci sono, ma non si riesce a convertirli in manovre pericolose. I motivi sono diversi. Uno è certamente dato dal fatto che McKenzie non ha ancora trovato la giusta alchimia tra i te quarti. I mediani Genia, White, Toomua e Quade Cooper sono stati provati in diverse combinazioni, ma nessuna ha veramente convinto. Anche il triangolo allargato ha visto l’alternarsi di diversi interpreti, ma il risultato non è cambiato, con Folau e Mogg che hanno sempre faticato a contrattaccare (merito anche delle difese avversarie, ci mancherebbe). Le noti positive dell linea veloce sono arrivate per lo più da Ashley-Cooper, una garanzia in ogni ruolo, e dal piede preciso di Leali’ifano, che  almeno nelle intenzioni avrebbe dovuto liberare Cooper dalla pressione del calcio e permettergli di giocare più serenamente. Ma il problema a monte dell’attacco Wallabies è la mancanza di consistenza dei primi cinque uomini. Come abbiamo già ricordato, una linea talentuosa ed esplosiva non è nulla senza possessi in avanzamento, e nemmeno Genia può inventare e correre traiettorie insidiose se il pacchetto è in costante arretramento. Solamente a folate abbiamo visto ball carriers vincere la collisione e mettere la squadra sul piede avanzante, e se a questo aggiungiamo che l’Australia è la squadra con la minor percentuale di mischie ordinate vinte su propria introduzione (appena il 61%), la diagnosi diventa ancor più chiara.

Certamente, servirà del tempo. McKenzie predica pazienza e dice, giustamente, che il suo gruppo deve maturare. L’ultima partita del torneo in Argentina è l’occasione ideale per costruire una base da cui ripartire in vista dei Test di Novembre, quando l’Australia farà visita anche all’Italia. Certamente entro allora qualche cambiamento dovrà esserci. Anche perché, come qualcuno laggiù già ha detto, le scuse e gli alibi prima o poi finiranno.

 

di Roberto Avesani  

@robyavesani

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