Crac, disastro, debacle: l’Italia delle coppe tra abachi e (forse) troppe pretese

Prendersela e criticare i pesanti ko delle italiane serve a poco o a nulla. Bisogna mettere mano al movimento

ph. Ottavia Da Re

Da anni siamo abituati a fare i conti con la calcolatrice dopo ogni turno di coppe europee: quanti punti hanno marcato le squadre italiane e quelli che hanno incassato, le mete fatte e le mete subite… lo abbiamo fatto anche noi.
Questo fine settimana sono partite le competizioni europee ed è ripartita la conta, d’altronde i risultati sono quello che sono: tra Heineken e Challenge Cup siamo di fronte a cinque sconfitte e un pareggio. Le critiche di tutti – tifosi e buona parte della stampa – sono rivolti principalmente al secondo dei tornei citati, e già qui si potrebbe aprire un dibattito: i circa 30 punti con cui Tolosa ha regolato le Zebre sono più “tollerati” – ad esempio – dei 60 rimediati dai Cavalieri in casa dei London Irish, eppure il gap tra le due squadre è maggiore nel secondo caso che non nel primo.
Sgombro subito il campo dagli equivoci: non sto dicendo che bisogna criticare di più le Zebre, che va ricordato hanno giocato sul campo del club più ricco d’Europa nonché uno dei più forti e dalla storia più gloriosa. Perdere come è capitato alle Zebre su quel prato ci sta, c’è chi ha fatto di peggio. Quello che sto dicendo è che forse si criticano eccessivamente i ko delle squadre di Challenge. Certo anche qui ci sono dei distinguo e ogni partita ha la sua storia (troppe le 14 mete subite da Viadana che rimane a oggi la squadra con maggiore esperienza europea delle quattro in corsa quest’anno in Challenge, ad esempio), ma nel complesso la solfa è quella che abbiamo descritto sopra. Non che manchino delle ragioni, però…

 

Dice che le critiche in realtà non sono dirette alle squadre e ai giocatori ma a chi manda i nostri club verso il disastro sicuro o quasi. Traduco, perché anche chi polemizza non lo dice quasi mai apertamente: la FIR. Ora, la federazione ha parecchi difetti e a modestissimo parere personale diverse cose le dovrebbe gestire in maniera molto differente, ma proviamoci a metterci nei panni del presidente di turno e chiediamoci: cosa fare concretamente?
In tanti si chiedono: a chi o a cosa serve tutto questo? La risposta, di pancia, è facile. Ma la pancia serve come deposito di cibo, non dovrebbe essere utilizzata come organo pensante. Servono perciò questi ko così pesanti? Sì, servono anche questi ko. Non dico nulla di nuovo, ma i “piccoli” nel rugby crescono a furia di schiaffi presi dai più grandi. Uscire dalle coppe – c’è chi lo chiede – è una follia, un passo indietro difficilmente recuperabile e che ci metterebbe davvero ai margini del movimento europeo, più di quanto non si sia oggi. Butteremmo tutto il lavoro che nel bene e nel male è stato fatto negli ultimi 15-20 anni. Poco o tanto che sia.
Tanti chiedono la partecipazione di una/due selezioni al posto delle quattro squadre. Le selezioni, tranne che nel caso di alcune federazioni, sono espressamente vietate dal regolamento e quindi di cosa parliamo? E poi siamo certi che le suddette selezioni garantirebbero risultati migliori? No. Oltre a una serie di problematiche di ordine pratico di non secondaria importanza: chi le allena? Quante volte? Lascio a voi le risposte.

 

Il problema vero è un altro. Quei ko, anche i più pesanti, possono essere tollerati e diventare in qualche modo “funzionali” solo se all’interno di un percorso di crescita. Ecco, forse quello che manca è questo, una prospettiva che ci dica che da qui a una manciata di anni il panorama potrebbe cambiare. A darci una mano non richiesta arriveranno le nuove competizioni europee che molto difficilmente manterranno lo stesso numero di squadre italiane presenti oggi. Facciamo una scommessa? L’anno prossimo avremo una squadra in Heineken (o come si chiamerà) e due, forse tre in Challenge. Questo significa che a oggi le Zebre scivolerebbero nella competizione inferiore in compagnia delle prime due dell’Eccellenza, se non solo la vincitrice del massimo torneo nazionale.
Il problema però rimane: dare una prospettiva di crescita. E qui bisognerebbe in realtà riformare proprio all’Eccellenza. L’ideale sarebbe probabilmente portarla a 8 squadre, legando in maniera diretta e numericamente equilibrata questi otto club alle due celtiche creando un libero scambio di giocatori: chi non gioca in Pro12 e/o in Heineken Cup va a giocare in  Eccellenza. Alcuni giocatori potrebbero venire “liberati” – in entrambe le direzioni – già a inizio settimana, consentendo loro di potersi allenare più a lungo con la squadra che gioca il campionato nazionale o quello celtico.
Non credo sia una cosa difficilissima da fare, basta averne la volontà politica, e i benefici sarebbero evidenti, creando una base più allargata di giocatori abituati a giocare a certi livelli. Tra l’altro la cosa funzionerebbe anche con l’Eccellenza a dieci squadre: “leghiamo” cinque squadre a Benetton Treviso, altre cinque alle Zebre e i ko in Challenge Cup con il tempo cominceranno a diminuire sia i termini numerici che qualitativi.
Senza dimenticare però un aspetto fondamentale senza il quale non si potrebbero raggiungere risultati duraturi, e cioè che la cosa andrebbe accompagnata alla formazione di tecnici e preparatori atletici: un lavoro oscuro che darebbe il suo frutto nel medio-lungo periodo ma che tirerebbe fuori il rugby italiano dal sostanziale immobilismo attuale.

 

Il Grillotalpa

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