Finti infortuni e vere espulsioni, nebbie e sacchi di sabbia: storie da australiani

In vista della partita di sabato a Torino Marco Pastonesi ci racconta una serie di aneddoti legati alla nazionale wallabies

ph. Sebastiano Pessina

Australiani. Aussies, Oz. Pronipoti di galeotti. “Cornstalks”, spighe di grano, quelli del New South Wales. “Cabbage gardeners”, giardinieri del cavolo, quelli di Victoria. “Bananabenders”, curvatori di banane, quelli di Queensland. “Croweaters”, mangiatori di corvi, quelli della South Australia. E formidabili giocatori di rugby.
E pensare che: nel luglio 1913, a Sydney, in Australia, la Nuova Zelanda affrontava il New South Wales. La terza partita contro una rappresentativa statale di un tour lungo 11 match. La prima vinta contro Queensland 17-8, la seconda perduta contro lo stesso New South Wales 25-3. Stavolta i neozelandesi s’imposero 16-0. Ma nel secondo tempo un episodio fece entrare la partita nella storia: l’arbitro, Edward McCausland, un neozelandese che si era trasferito a Sydney da alcuni anni, fermò il gioco per parlare con William McKenzie, terza ala neozelandese, il primo della sua Nazionale a staccarsi dalla mischia rischiando il fuorigioco, tant’è che era soprannominato “Offside Mac”. Dopo una lunga conversazione, McKenzie si allontanò dal campo zoppicando. I ventimila spettatori gli tributarono un caloroso e leale applauso. Poi si seppe che McKenzie aveva finto un infortunio per mascherare l’espulsione. Il primo espulso indossando la maglia della Nuova Zelanda.

 

E pensare che: nel settembre 1913, a Wellington, in Nuova Zelanda, prima di Nuova Zelanda-Australia si abbatté un diluvio che non frenò cinquemila spettatori a recarsi all’Athletic Park, ma convinse l’arbitro, il neozelandese Len Simpson, a escogitare un metodo per sostenere i 30 giocatori. Dividere il match non in due metà, ma in quattro quarti, ciascuno, ovviamente di 20 minuti. E, a ogni intervallo, riscaldare i giocatori con bevande calde e con maglie asciutte. Gli australiani, meno abituati alle avversità meteorologiche, furono sconfitti 30-5.
E pensare che: nel febbraio 1940, a Parigi, in Francia, la Seconda guerra mondiale stravolse milioni di persone, ma non i Wallabies. Il loro tour britannico prevedeva 15 partite, ma quando gli australiani atterrarono, furono informati della cancellazione degli incontri. La prima settimana la trascorsero caricando e scaricando sacchi di sabbia sulle coste meridionali, poi la diplomazia ebbe il sopravvento, e una squadra battezzata Army XV fu autorizzata a giocare al Parco dei principi contro la Francia. In quella squadra militare c’era il meglio non solo degli australiani, ma anche del rugby britannico, trequarti come la cavalleria e avanti come l’artiglieria. I Bleus furono sconfitti 36-3, ma la Federazione francese era così orgogliosa del rientro nelle competizioni internazionali, che concesse il “cap” ai suoi giocatori.

 

E pensare che: nel febbraio 1958, a Coventry, in Inghilterra, i Wallabies vennero battuti 8-3 dalle Midland Counties. Il match viene ricordato non per la fine che fecero quegli australiani, ma per la fine che fecero i palloni. Due vennero calciati con tale potenza da arrivare sul tetto delle tribune dell’Highfield Road, il campo del Coventry City di calcio. E non ci fu modo di recuperarli. Quando l’inglese Fenwick Alliison spedì sul tetto anche il terzo, la partita venne sospesa perché non c’erano altri palloni. Sentendosi, se non colpevole, almeno responsabile, lo stesso Allison, accompagnato da due poliziotti, si rivolse agli spettatori – diecimila – chiedendo se avessero portato un pallone da casa. Niente. Però si recuperò una scala. Non fu facile: ci vollero cinque minuti perché il guardiano del campo riuscisse a salire sul tetto e riprendere i tre palloni. Intanto, uno spettatore aveva lanciato in campo uno di quei palloni piccoli, tascabili, da “souvenir”, e gli australiani avevano intrattenuto la gente giocando con quello.
E pensare che: nel gennaio 1978, a Twickenham, in Inghilterra, la rappresentativa scolastica australiana affrontò l’under 19 inglese. Fino a quel momento gli australiani – fra cui, dietro, i tre fratelli Ella – avevano vinto 13 partite su 13 illuminando il gioco con forza e fantasia. Ma quel giorno neanche i riflettori avrebbero potuto illuminare il campo: c’era una nebbia da tagliare con il coltello. L’arbitro, il francese Jean- Pierre Bonnet, autorizzò gli spettatori a sistemarsi lungo il campo per vedere almeno qualche giocatore. E si giocò: gli australiani vinsero 31-9, segnando sette mete, ma fallendo tutte le trasformazioni. Non si vedevano i pali.

 

di Marco Pastonesi

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