Doping e rugby, facciamo una fotografia: intervista a Sandro Donati

Uno dei massimi esperti mondiali di “sofisticazioni sportive” risponde alle nostre domande. Una intervista imperdibile

ph. Denis BalibouseAction Images

Sandro Donati è tante cose: tecnico, insegnante, scrittore e uomo impegnato nel sociale con l’associazione Libera. Ma Sandro Donati è uno dei massimi esperti di doping al mondo, unico consulente italiano della WADA (l’Agenzia Mondiale Antidoping).
OnRugby lo ha intervistato a pochi giorni da una importante giornata di incontri (il titolo: “Per mantenere un rugby pulito”) che si terrà sabato a Silea con la presenza dell’ex presidente FIR Giancarlo Dondi, il “nostro” Marco Pastonesi e lo stesso Donati.

 

Doping e rugby: professor Donati, ci faccia una fotografia della situazione
Piccola premessa: io faccio valutazioni come esperto di allenamenti, in base alle performance e dal punto di vista morfologico della struttura muscolare degli atleti.
Veniamo al dunque: è indubbio che negli ultimi anni le masse muscolari siano cresciute in maniera importante, troppo direi. Come allenatore non posso non rilevare che le spiegazioni addotte non convincono. Un aumento del genere non è giustificabile solo con l’allenamento e con l’utilizzo di macchine per la muscolazione. Non lo è nel calcio, dove l’aumento della massa muscolare interessa principalmente le gambe, non può esserlo sempre nel rugby dove anche la parte superiore del corpo è protagonista.

 

Eppure nel corso degli anni si è percepito un aumento della “sensibilità” delle istituzioni sportive verso il problema-doping
Siamo in un campo molto scivoloso e un po’ ipocrita. Il mondo sportivo controlla se stesso, i dati diffusi e le misure messe in pratica non possono essere realmente attendibili. Non possono esserli quelli delle federazioni, ma non possono esserlo nemmeno quelli degli organismi internazionali che alla fine sono un equilibrio “politico” delle singole federazioni.
Ci vorrebbero contolli di organismi realmente terzi, più verifiche a sorpresa durante gli allenamenti e la preparazione perché è lì che si pratica di più il doping, non a ridosso delle gare. I controlli e gli esami, a seconda della disciplina interessata, dovrebbero essere concentrati in determinate fasi delle stagioni.
Non solo: non bisogna affidarsi troppo ai controlli sulle urine, ci sono troppe sostanze che sfuggono ai controlli, bisogna effettuare mappature periodiche del sangue.

 

Il famoso passaporto biologico
Sì, ma attenzione, non quello “finto” e un po’ ipocrita di cui si parla spesso. Il sistema sportivo quando usa la definizione “passaporto biologico” si riferisce al protocollo sviluppato dal mondo del ciclismo. Che da un lato è l’unico finora testato in maniera importante – e funziona – ma che si riferisce a una disciplina che fa soprattutto della resistenza la sua caratteristica fisica. Quei parametri possono funzionare per sport che abbiano le stesse caratteristiche ma non vanno bene per pratiche che prevedano anche una forte presenza di potenza muscolare, come il rugby. In quel caso quel protocollo è tutto sballato, i parametri sono completamente diversi. Almeno la metà degli sport sono fuori da quel tipo di passaporto biologico.

 

Negli scorsi mesi la federazione inglese e quella francese hanno presentato i loro report periodici. In entrambe si è sottolineato che alla fine la maggior parte dei rugbisti trovati positivi avevano assunto quello che viene definito “doping ricreativo”, sostanze come marjuana e simili. Non un vero doping preso per migliorare le proprie prestazioni
Mi lasci dire una cosa: la retorica che circonda il rugby sta diventando insopportabile. L’accanimento per ottenere il risultato è identico in tutte le discipline sportive, rugby compreso.
Detto questo, sul doping ricreativo vanno dette due cose. La prima è che certe abitudini non possono diventare “normali” o “virili”. La seconda è che le droghe ricreative non possono essere considerate doping, se l’intenzione è quella di migliorare le proprie prestazioni quelle sostanze non servono davvero a nulla. Poi ci sarebbe da dire un’altra cosa…

 

Prego, dica
Il sospetto forte è che quel tipo di sostanze vengano usate in maniera strumentale dalle federazioni per poter dire che stanno facendo qualcosa. Mi spiego meglio: si fanno tanti controlli ma spesso di casi positivi non ce ne sono o sono pochissimi. La squalifica per l’utilizzo di questo tipo di sostanze diventa perciò molto utile ai fini statistici per poter dire “io faccio”.

 

Nel mondo del rugby da sempre il paese più chiacchierato è il Sudafrica…
Nel 2007 feci un report sul traffico mondiale di steroidi anabolizzanti. Solo quell’anno in quel paese vennero sequestrate 12 tonellate di sostanze dopanti. Nel mio documento posi l’accento sul ruolo importante che aveva quel paese come detinazione finale dei traffici ma anche come intermediazione.
Non è un caso che Sudafrica ed ex Rodhesia (l’attuale Zimbabwe, ndr) siano tra i paesi preferiti come destinazione di stage di preparazione più o meno lunga per tanti atleti e tante discipline sportive. Però io farei attenzione a cadere nel trabocchetto dell’individuare un solo Paese: il Sudafrica ha sicuramente un problema di doping – e non mi riferisco solo al rugby – ma ormai viviamo tutti nel villaggio globale, rischieremmo di perdere di vista il panorama complessivo.

 

Lei prima diceva che i controlli dovrebbero essere effettuati da istituzioni terze. Qualcosa che va in questa direzione è stato fatto in Australia negli scorsi mesi
Sì, dell’operazione-Australia, chiamiamola così, mi piace però il punto di partenza e non quello di arrivo, perché alla fine le federazioni sportive di quel paese hanno collaborato all’individuazione dei casi di doping. Parlo della federazione calcistica, quella di rugby che ne è uscita pare pulita e quella di rugby league che invece era parecchio coinvolta. Però mi pare che alla fine nomi non ne sono usciti e quindi nemmeno squalifiche.

 

E l’Italia come è messa?
L’Italia è esattamente come il resto del mondo. Ovunque tu vai c’è sempre qualche alto dirigente sportivo che racconta e si racconta la storiella del “noi facciamo più controlli di tutti”. L’Italia non è per nulla diversa e anche qui c’è il solito problema di fondo con il CONI che controlla se stesso.

 

Qualcuno potrebbe dire che controlli a sorpresa di quel tipo, con l’eventuale estromissione delle federazioni, toglierebbero al mondo dello sport la sua autonomia e lo metterebbero in “amministrazione controllata”, se non in una sorta di stato di polizia
Forse. Però qui non ci sono in ballo diritti democratici e non bisogna dimenticare che è lo stesso mondo dello sport ad essersi messo in questa posizione, abbassando la guardia verso il problema del doping. Se non addirittuta tenendo verso la questione un atteggiamento di complicità. La responsabilità è tutta delle organizzazioni sportive.

 

Ultima domanda. C’è una qualche differenza tra discipline sportive? Prendiamo l’esempio del rugby: in Inghilterra, Francia o Sudafrica è uno tra gli sport più diffusi: questo lo mette sotto controlli più stringenti? E al contrario, in Italia, dove invece è una realtà più di nicchia, può più facilmente sfuggire ad esami ed analisi? Parliamo ovviamente in via teorica…
No, il fatto di essere più o meno popolare non salva una disciplina e nemmeno la mette di più nell’occhio del ciclone, diciamo così.
La verità è un’altra: più uno sport ha un valore economico elevato e più i controlli vengono addomesticati. Lo stesso vale però per sport più di nicchia ma che hanno atleti o campioni che riescono a diventare “personaggi” e a muovere tanti soldi. Le federazioni in quei casi tendono ad allentare la morsa, il “valore” degli atleti è anche il loro valore. Diventa tutto più complicato.
Sarò ripetitivo: il primo fattore nella lotta al doping non può che essere la neutralità e terzietà dei controlli.

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