Questa settimana Marco Pastonesi ci racconta una delle figure-chiave della palla ovale italiana
Nembo Kid: il ragazzo delle nuvole. Nasce sul pianeta Krypton, parla americano, parla anche a fumetti, fa il giornalista, poi entra in una cabina telefonica, indossa tutina e mantello e si trasforma in un superuomo dotato di supervista, superudito e superforza. Vola. Aiuta, salva, protegge. Trova perfino il tempo per innamorarsi.
Il Nembo Kid – poi, non più Kid, rimarrà per sempre “Nembo” – del rugby italiano è Salvatore Bonetti. Nasce a Lumezzane, in Val Trompia, parla con accento bresciano, poi entra in spogliatoio, indossa braghe corte, maglia a strisce bianche e azzurre del Brescia o azzurra della Nazionale (per 34 volte, quando si giocavano quattro partite all’anno, e non quattro al mese) e si trasforma in un giocatore dotato, forse non di supervista e superudito, ma certo di superforza. Vola. Aiuta, salva, protegge. Trova perfino il tempo per innamorarsi. E’ seconda linea e terza centro, grande e grosso, cattivo il giusto. Un angelo custode, un santo protettore, un’adorabile canaglia, adorabile almeno finché ce l’hai dalla tua parte.
Bonetti ha ricevuto, sabato scorso, il premio che ogni anno gli Old del Rugby Piacenza attribuiscono al rugbista che tutti avrebbero voluto avere nella propria squadra, o che tutti hanno comunque ammirato per quelle doti di forza ma anche di lealtà, di abilità ma anche di umanità, insomma, per quei valori su cui si fonda questo sport. Tante strette di mano con antichi avversari ed eterni amici, e poi parole, fotografie, primo secondo dolce e caffè, e una giornata di primavera rubata all’inverno.
Se c’è una partita da ricordare, è quella di un torneo estivo, si giocava a undici per via del campo in dimensioni ridotte, “Nembo” non ancora tale prese una tramvata sotto forma di placcaggio e perse conoscenza, lui garantisce che non è stata l’unica volta, poi si ritrovò, e recuperò, e capì che è sempre meglio dare piuttosto che ricevere, in tutti i sensi, soprattutto nel senso del tram, e alla fine fu così bravo da convincere Gigi Savoia, tecnico federale, a promuoverlo in Nazionale.
Se c’è una partita da ringraziare, non c’è una sola partita ma quelle nove in trenta giorni che costituirono il tour dell’Italia in Sud Africa del 1973, si giocava, per tre settimane, di mercoledì e di sabato, e la quarta settimana, di mercoledì, di sabato e di lunedì. Andati giocatori, tornati squadra. Tanto che, se avessero potuto cominciare dalla fine invece che dall’inizio, non ne avrebbero persa neanche una. E “Nembo” capì che fino a quel tour aveva giocato a rugby, ma non era stato un rugbista, perché il rugbista è quello che vive esclusivamente per il rugby, allenamenti e partite, partite e allenamenti, il resto concepito e respirato in funzione di allenamenti e partite, di partite e allenamenti. “Nembo” intuì la distanza e capì la differenza che passano fra il rugby inteso come sport e il rugby inteso come religione: il primo, quello degli italiani, il secondo, quello dei sudafricani. Perché ogni atto faceva parte di un rito, ogni gesto di una cerimonia, ogni azione di una storia, ogni slancio di una tradizione, ogni prodezza di una eredità, ogni scontro di una regola, ogni orizzonte di una logica.
Se c’è una partita da raccontare, quella contro gli All Blacks, a Padova, il 22 ottobre 1977, che per “Nembo”, da allora, non significò più soltanto il giorno del compleanno. La Nazionale italiana giocava con la Polonia, e la Federazione era concentrata tutta là. Ma c’erano gli All Blacks, in Europa, e siccome volevano vedere Venezia, si organizzò una partita contro un’altra Italia.
Fu battezzata il XV del Presidente. Dentro, anche tre stranieri che, oggi, si chiamerebbero equiparati: Dirk Naudè seconda linea, Guy Pardies mediano di mischia e Nelson Babrow mediano di apertura. “Nembo” capitano. A cinque minuti dalla fine, i trenta in campo calpestavano ancora quella sottile linea di confine che separa la vittoria dalla sconfitta, il trionfo dal lutto, la speranza dalla delusione: 10-9 per i tuttineri. “Nembo” sostiene che l’Italia perse, eppure vinse. Perse nel punteggio (17-9), ma vinse nel coraggio, nello spirito, nella determinazione.
E se c’è una partita da dimenticare, quella contro i Wallabies, all’Arena di Milano, nel 1976. Stavolta era l’Italia senza stranieri o equiparati, ma con i suoi diversi dialetti e accenti. E se l’arbitro avesse dato quello che avrebbe dovuto dare, non sarebbe finita 16-15 per i Wallabies. L’arbitro era italiano. E non se la sentì di cambiare il verso della storia. Smise di giocare nel 1981, “Nembo”. Trentadue anni dopo, non ha ancora smesso di insegnare.
di Marco Pastonesi
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