Il pilone rilascia una bella intervista a Repubblica dove parla a ruota libera e dove annuncia l’addio alla nazionale dopo la RWC
Una intervista in cui non si nasconde e non usa giri di parole. Chiunque abbia avuto a che fare qualche volta con Martin Castrogiovanni sa che il pilone azzurro e del Tolone è una persona molto diretta. Non stupisce quindi che le parole che usa nella conversazione con Massimo Calandri di Repubblica pubblicata oggi sul quotidiano e in parte anche sul blog personale del giornalista non prendano mai grandi strade e vadano sempre dirette al punto. E così quando il giornalista chiede conto di una voce che circola da diversi anni, e cioè che nel gruppo azzurro anche nel decidere la formazione a pesare molto sarebbe il cosiddetto “clan argentino” (vale a dire Parisse, Canale e appunto Castrogiovanni), beh, risponde così: “Se andiamo a parlare da Jacques – io, Sergio o Gonzalo – quello ci prende a schiaffi e calci nel culo. Ma hai presente il tipo? Non è un gran chiacchierone e non perde mai la pazienza, però gli basta un’espressione del volto per farti sentire una formica”.
C’è anche un accenno – sul blog – alla politica federale sulle Accademie, una risposta tanto breve quanto significativa: “Ne abbiamo più che in Nuova Zelanda. Boh”.
Annuncia l’addio all’azzurro dopo la RWC 2015 (“E dopo il Mondiale, basta Nazionale. Voglio riposarmi”) e fa paragoni tra realtà diverse: “Il problema di noi italiani è che pensiamo sempre al quotidiano. Mai al domani. In Inghilterra ho imparato tanto: loro programmano, valutano come saranno le cose tra dieci anni. Allora si organizzano, dettano delle regole precise e le seguono. Chi sbaglia, si assume le sue responsabilità. E paga. Se perdono non fanno drammi, non si accusano l’uno con l’altro. Pensano a risolvere il problema. Invece noi se vinciamo siamo eroi, se perdiamo dei falliti».
Chiude infine con un monito/avvertimento per i più giovani: “L’importante è che non ci facciamo contaminare da abitudini, come dire?, calcistiche. Anche i migliori giovani devono ricordarsi che non si è mai arrivati: servono impegno, umiltà, voglia di migliorarsi. Altrimenti alla prima difficoltà, al primo dolore, finisce tutto. E poi, il vero rugby mica lo giocano i campioni. Il vero rugby è quello delle piccole squadre, degli amici di una vita, delle battaglie e dei terzi tempi, quelli veri. Mica come noi professionisti, che ormai dopo la doccia siamo già sull’aereo”.
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