Marco Pastonesi fa tappa alla club house della società monzese. E sono subito ricordi, profumi e tanta passione ovale
Il campo da rugby ha, come vista, la tangenziale; come vicino, una bocciofila; come tribuna, una lamiera. Eppure è un luogo magico. Il pomeriggio di una domenica in cui il cielo fa da soffitto e le montagne da sfondo, trenta ragazze rincorrono il vento. Maglie bianche e rosse e maglie bianche e verdi, a strisce orizzontali, per rendere l’idea di uno sport che è vero che aspira all’alto, se non all’altissimo, ma che rimane sempre con i piedi per terra. Nuvole e zolle. Rugby, a Monza.
Armando Chiolo era un giocatore di rugby: forse il Maci di Monza. Ma non era monzese: lui era romagnolo di Ravenna, emigrato a Milano, traslocato a Monza. Campionati nell’Amatori, partite in Nazionale. Poi la vocazione di missionario, il corso di allenatore a L’Aquila, che è come se un cattolico facesse il catechismo a Lourdes e un bambino il minirugby a Pontypridd, finché a trentatré anni – un’età fatale – Chiolo è stato richiamato anzitempo negli spogliatoi. In cambio dell’ingiusta sostituzione, il regalo dell’eterna giovinezza.
Il campo del Monza è dedicato a Chiolo. Ne sarà orgoglioso. Se annusi, è profumo di terra. Se guardi, è balletto di trequarti. Se ascolti, è musica di avanti. Se consideri, è una botta di vita. Monza e Treviso giocano a cuore aperto, le azioni inseguono progetti e accarezzano sogni, e quando una difesa lascia uno spiraglio e scopre una fessura, come una porta socchiusa, fosse anche quella che dà sul cortile o sul montacarichi, il balletto e la musica spostano il palcoscenico, è c’è altro profumo da annusare.
Penso a tutto questo mentre, in tribuna, genitori e amici incoraggiano le rugbiste, mentre, in campo, l’arbitro – che è donna – dirige con precisione e sorrisi, una bellezza sconosciuta altrove, mentre, sul tetto degli spogliatoi, un uomo riprende la partita con una telecamera, mentre, sul perimetro del rettangolo, due fotografi cercano ispirazioni e trovano angolazioni, e mentre, in piedi sul prato, giocatori in borghese e forse imborghesiti sorseggiano birra.
Più passa il tempo, più m’interessa il rugby di club e di base, il rugby umano e normale, il rugby primitivo e povero, il rugby dei bambini e delle donne, il rugby – se mai esistessero ancora – delle docce fredde e dei riflettori timidi, dei piloni grassi e delle ali secche. Mi appare molto più valoroso.
Intanto: lo spirito è vivo, la sfida avvincente, il risultato è ribaltato all’ultimo istante. I saluti non sembrano ipocriti, i complimenti non suonano stonati, la gioia e l’amarezza sono autentiche. Poi il terzo tempo, a base di polenta gialla e vino rosso, e già ricco di ricordi e racconti. Nella club-house troneggiano un bancone dove servono boccali e calici, una bacheca con ritagli, manifestini e fotografie, e filari di bandierine di altre squadre, con altre storie e altri colori. C’è un Maci, e c’è un Chiolo, sotto qualsiasi latitudine, e vicino a qualsiasi tangenziale.
Questo sport così ovale non finirà mai di stupirci.
C’è sempre da chiedersi che cosa si possa dare – dare per restituire – al rugby. Stavolta, adesso, queste righe qui.
Di Marco Pastonesi
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