Marco Pastonesi ci racconta colori e impressioni di alcuni giorni passati a Cardiff. Partendo da un bed & breakfast davvero unico
Una casetta bianca, due piani e mezzo, finestre senza imposte, un’aria casalinga anche se è un albergo. St.Hilary’s Hotel, l’albergo di Sant’Ilario. Quale Sant’Ilario, non si sa. Perché di Sant’Ilario – compresa la stazione di Sant’Ilario di “Bocca di Rosa”, dove tutti “si accorsero con uno sguardo che non si trattava di un missionario” – è piena perfino Wikipedia. St.Hilary’s Hotel, a Cardiff, 25 sterline bed and breakfast, ma quando c’è il rugby il prezzo sale a 35 sterline. Affare fatto.
C’è quel sottofondo di moquette in cui abitano milioni di acari, pur esentati dalle 25 sterline quotidiane, c’è quel profumo di pancetta e uova al tegamino e fagioli in sugo di pomodoro fin dall’alba, c’è quella colonna sonora di scricchiolamenti lignei su pavimento e scale, c’è quell’ambiente di muschi e licheni da clima non sempre secco e asciutto, e c’è quell’atmosfera di usato e vissuto, di nordico e oceanico, di gallico e gallese, che mi piace da morire.
Entrando, a sinistra, una vetrina. Sotto vetro, blindati, memorabilia rugbistici. Il pallone Adidas di un Barbarians-New Zealand Barbarians, e poi cravatte, tazze, coppe, targhe, trofei, piatti, bicchieri, una fiaschetta (da whisky) destinata al migliore giocatore, perfino una statuetta che riproduce un giocatore grande e grosso, maglia a strisce orizzontali nere e blu. Trattasi del proprietario del bed and breakfast: Paul Rees. Colonna del Cardiff e anche del Galles.
Infatti, entrando, a destra, una fototeca.
Fotografie di formazioni del Galles e del Cardiff, in bianco e nero, formazione schierata, in piedi, in ginocchio, in terra. Facce metallurgiche, fisici minerari, coloriti vegetali, spalle squadrate, baffi spioventi, sguardi fiammeggianti. E infatti, entrando, a destra, in alto, un museo. Maglie incorniciate del Sud Africa, dell’Inghilterra, della Francia, dell’Irlanda, e ovviamente del Galles, le più belle, quelle pure e semplici, genuine e tradizionali degli anni Settanta.
Del Sei Nazioni, non c’è trasferta più autentica che in Galles, non c’è città più ovale di Cardiff, non c’è stadio più rugbistico del Millennium, non c’è inno più profondo della “Terra dei miei padri”, non c’è pioggia più orizzontale (tant’é che gli ombrelli non coprono e si scappellano e decollano) di quella che spazza Queen Street e flagella Mary Street, non c’è popolo più avanti (nel senso della mischia) di quello residente a Pontypridd e Port Talbot, non c’è lingua più ignorante del gallese che ignora l’armonia e trascura le vocali.
Per esempio, Llanfairpwllgwyngyllgogerychwyrndrobwlll: è un villaggio sull’isola di Anglesey, il nome significa “Chiesa di Santa Maria nella valletta del nocciolo bianco, vicino alle rapide e alla chiesa di San Tysilio nei pressi della caverna rossa”.
Galles è stato incontrare Gareth Edwards, il tempo di estrarre carta e penna e il vecchio mediano si era già dileguato. E’ stato incontrare Gareth Edwards una seconda volta, e stavolta non poteva dileguarsi, perché era la statua a lui dedicata, nel bel mezzo della Queen Arcade, centro commerciale, come se ci fosse un monumento in omaggio a Stefano Bettarello nel centro commerciale Bonola di Milano.
Galles è stato incontrare Barry John, bello tondo, nella tribuna dei giornalisti, e JPR Williams, zoppicante, ma sempre con i suoi basettoni, nei meandri intestini del Millennium, e pensare che mi hanno detto che c’era anche Phil Bennett. Galles è stato quei quattro tifosi di Ancona, vestiti da cuochi, e quelle migliaia di italiani che, cantando, hanno italianizzato lo stadio.
Galles è stato quell’uomo che, prima della partita, ci ha augurato “buona fortuna”, poi è tornato indietro e si è corretto, “un po’, non tanta”. Galles è stato l’Italia delle donne che ha battuto il Galles in Galles 12-11 in rimonta.
di Marco Pastonesi
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