Marco Pastonesi ci presenta un libro che parla di Grenoble 1997 come finora nessuno aveva ancora fatto
Quanti tram e quanti treni, di quelli da saltarci su di corsa al volo, passano in una vita? Quante Milady, con cui si crea uno stato di grazia senza un perché, s’incontrano in un bar o si sfiorano in un parco? Quanti giorni, quante corse, quante partite perfette ci sono in una carriera sportiva? Forse una, forse due, forse nessuna, forse mai. Porte che si aprono e si chiudono, pali che non accolgono ma respingono, attimi che fuggono e sfuggono, circostanze che non si verificano o non si ripetono. Basta poco, basta niente. Un rimbalzo. Se poi il pallone è ovale, c’è pure la scusa.
Invece succede. Grenoble, il 22 marzo 1997. Francia-Italia. La Francia che ha appena conquistato il Cinque Nazioni con tanto di Grande Slam. E l’Italia che ha accarezzato il pareggio in Scozia, vinto a Dublino e perso con il Galles solo perché l’arbitro ci ha negato una meta sacrosanta. La Francia che arriva dopo giorni di festa e con chili di presunzione. E l’Italia che si prepara fra sogni e presentimenti, passioni e tensioni. La Francia di Jean-Claude Skrela e Pierre Villepreux. E l’Italia di Georges Coste, che è francese, ma di frontiera, frontiera sud, orizzonti di Pirenei, aria di Spagna.
Francesco Volpe ha scritto “Il rugby sottosopra” (Absolutely Free Editore, 168 pagine, 15 euro): quella partita lì, Francia-Italia a Grenoble. A suo modo, quella partita lì è come un tram o un treno da saltarci su di corsa al volo, come una Milady sfiorata in un parco e in uno stato di grazia, come una squadra unita, quindici uomini come se fossero uno solo, e ottanta minuti concentrati e perfetti. Volpe, specialista del rugby per il “Corriere dello sport” e già autore di “Props”, segue la cronaca, dai giorni della vigilia, poi entra nel match, racconta le azioni, descrive gli sguardi, registra le parole, svela l’intervallo, ritorna in campo, ci accompagna fino all’ultimo secondo di guerra, che coincide con il primo secondo di pace, da una parte la soddisfazione o forse la felicità, dall’altra lo smarrimento o forse la vergogna.
C’è Massimo Cuttitta, “Mouse”, che da piccolo – sarà mai stato piccolo, il Cuttitta pilone? – lanciava il disco, gettava il peso e si cimentava, senza troppo successo, sugli ostacoli. C’è Massimo Giovanelli, “il Giova”, che da capitano proibì l’uso dei telefonini a pranzo e a cena e che obbligò a rimanere tutti seduti fino al caffè e che sentenziò che l’inno andava cantato, non ascoltato.
C’è Ivan Francescato, che era l’ottavo di otto figli, sei maschi e due femmine, e i maschi tutti rugbisti, il suo marchio di fabbrica era una finta, interno-esterno e difensore lasciato sul posto, capelli al vento, calzettoni abbassati, roba sporca nella borsa. C’è Giambattista Croci, da San Benedetto del Tronto, che li aveva provate tutti – basket, pallavolo, pallamano, getto del peso e staffetta, oltre al calcio – finché venne buttato in un campo, chiamato a prendere le touche, prese anche un sacco di botte, eppure si appassionò. C’è Francesco Mazzariol, detto “Cocco”, che prima della partita si spalmò di pece le mani, troppa, tanto che il pallone gli rimaneva attaccato.
E c’è Coste, che prima di affidare i suoi giocatori al campo, ripeté i suoi tre comandamenti: “Primo: placcate. Secondo: ricordatevi di impegnare il minor numero possibile di giocatori sui punti d’incontro. Terzo: occupate il campo”. Finì 40-32. Per l’Italia.
Se Diego Dominguez confermò la sua precisione (dopo il primo errore, otto centri su otto), se Paolo Vaccari dimostrò il suo valore (una meta fatta e una fatta fare), se Alessandro Troncon collezionò altri punti (ma di sutura: una ventina, ne avrà duecento a fine carriera), qui anche Volpe disputa la partita della vita. Perché “Il rugby sottosopra” si legge di corsa, perché fa venire i brividi, perché fa entrare dentro nel match, ma durante il match, fa entrare anche dentro le vite dei ragazzi, loro, quelli prima di loro e, conoscendoli, anche quelli dopo di loro.
Ci sono storia e geografia. Ci sono notizie e informazioni. Ci sono aneddoti e segreti. E c’è amore. Questo libro è una dichiarazione di amore, al di là della nostalgia di un tempo in cui, con poco, si faceva molto, e con meno, si dava di più, e con quel diavolo di Ciro Sgorlon si battevano Pelous, Benazzi, Califano, Sadourny e perfino Merle, Olivier Merle, così grande e grosso da essere ribattezzato “Massiccio Centrale” o “l’uomo e mezzo”.
di Marco Pastonesi
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