Romagna, l’unica vera franchigia italiana. Ecco come funziona

Dogi, Zebre o Benetton? Noi andiamo in Serie A: direttore generale e direttore tecnico della società ci hanno spiegato come vanno le cose da quelle parti

ph. Filippo Venturi

Nelle ultime settimane si è molto parlato di Dogi e della possibilità di vedere nascere in Italia una vera franchigia territoriale. Sappiamo tutti come è andata a finire dopo il decisivo incontro di Calvisano, con la decisione di far proseguire l’avventura celtica alla Benetton (pare) per altri quattro anni, tenendo aperto un piccolo spiraglio su un’eventuale creazione futura della selezione veneta. Molti hanno ritenuto questa strada l’unica percorribile, convinti che un vero e proprio sistema di franchigie territoriali non possa funzionare nel nostro paese e nel nostro sistema ovale.
Ma c’è una realtà in Italia, e più precisamente in Romagna, che potrebbe dimostrare il contrario. Certo, nessuno si azzarda a fare confronti tra una realtà che milita in Serie A e una che avrebbe dovuto partecipare al Pro12. Qui si vuole solo parlare di un progetto che sta iniziando a dare i suoi frutti e far conoscere un modello di sviluppo e formazione che ha fatto il suo debutto in Italia solamente pochi anni fa. E che ci ha fatto davvero una bella impressione. Ne abbiamo parlato con Giacomo Berdondini, direttore generale del Romagna Rugby Football Club, con cui abbiamo ripercorso le tappe più importanti di questo processo.

 

Per prima cosa ti chiedo le 5 W del vostro progetto. Quando è nato, da chi è stato animato, perché è stato avviato…
L’idea nasce nel 1999 dall’attuale presidente Giovanni Poggiali. Al ritorno da un’esperienza in Inghilterra, dove ha avuto modo di conoscere il sistema del collage rugby, si informò su come migliorare lo status del rugby in Romagna. In quelli anni erano tre le società principali, ovvero Forlì, Imola e Cesena, che era appena uscita da un fallimento dopo un’esperienza in Serie A portata avanti grazie all’apporto di alcuni giocatori argentini. L’idea di Poggiali era di costruire un progetto che avesse una squadra al vertice, ma che al contempo fornisse servizi e opportunità a squadre del territorio secondo schema molto semplice: chi ne vuole far parte bene, chi non vuole non c’è nessun problema.

 

E il fulcro del progetto dove è stato individuato?
Cesena era l’ambiente più fertile per le esperienze degli anni precedenti in Serie A e per le strutture disponibili. Eravamo appena entrati nel Sei Nazioni, di rugby si iniziava a parlare più diffusamente anche nella Romagna, ed erano nati altri club come Rimini, Ravenna e Faenza. Si è iniziato con piccole selezioni regionali, poi la svolta è arrivata al termine della stagione 2004-05, con la promozione del Cesena in Serie B.

 

Cosa è cambiato dopo?
All’indomani della promozione si è deciso di fondare una nuova realtà, dal nome Romagna RFC. Lo schema era ed è quello di una società al vertice di un movimento regionale, che però fornisse servizi tecnici e dirigenziali per le società del territorio che volevano aderire. C’erano Cesena, che ha dato il titolo sportivo e inizialmente la maggior parte dei giocatori, Rimini e Ravenna, alle quali si sono aggiunte Imola, Forlì, San Marino e infine Lugo e Alfonsine, le due realtà più piccole.

 

Siete cresciuti molto da allora. Basta leggere alcuni numeri…
Dal 2000 al 2013 siamo passati da 220 a 1.300 atleti, da 14 a 70 tecnici, e da 24 a 110 dirigenti.

 

E dal punto di vista burocratico e istituzionale come avete proceduto?
Nel 2010 abbiamo steso un documento comune d’intesa fra le società che fanno parte della franchigia. La nostra federazione non prevede un rapporto del genere fra società e non esistono realtà simili alla nostra. Abbiamo formalizzato la situazione senza troppe difficoltà burocratiche, sotto forma di un accordo tra gentiluomini, ma senza nemmeno bisogno del notaio.

 

Il vostro scopo ultimo è la crescita del rugby non solo della prima squadra del Romagna ma di tutti i “confederati”. Cosa offrite?
Noi vogliamo dare un punto di arrivo di discreto livello per chi inizia a giocare a rugby in Romagna. Quando un atleta raggiunge il livello giusto per la squadra di vertice si raggiunge una comune intesa, ma senza un trasferimento di tipo economico. Oltre a questo ci sono altri servizi. Per esempio in Romagna ci sono sempre state pochissime selezioni, essendo l’Emilia molto più sviluppata in termini rugbistici. Noi abbiamo portato avanti progetti di selezioni giovanili, con i quali partecipiamo a tornei in Italia e in Europa, come tra pochi giorni che saremo a Tolosa con l’Under 18. E questo è servito a tutti atleti, sia a chi arriva in Serie A sia a chi invece prosegue con la squadra Seniores del suo club. In più ci sono i campionati interni, oltre al Summer Camp e il progetto scuole, fondamentali momenti di reclutamento e radicamento nel territorio.

 

Come sono organizzati i campionati interni? Immagino non siano partite ufficiali…
Spesso i calendari organizzati dai comitati regionali hanno dei buchi, per esempio quest’anno l’Under 18 non giocava a gennaio. E allora abbiamo organizzato dell’attività interna in quelle giornate, sempre per far crescere tutti i club che stanno alla base della piramide. Non è attività riconosciuta ma pur sempre attività. Questo poi è il momento vero in cui iniziamo a vedere quali ragazzi sono più in forma per fare gli allenamenti di selezione per entrare nella rosa della Serie A. La logica è che così tutti hanno la loro opportunità.

 

Come fate a tenere d’occhio tutti in un territorio così ampio?
Cerchiamo di capire chi può già essere pronte, e questi da febbraio iniziano a fare un percorso per arrivare pronti soprattutto fisicamente. Anche quelli ancora acerbi ma che potrebbero farcela sono tenuti sotto occhio grazie alla collaborazione tra il nostro responsabile tecnico, Francesco Urbani, che è anche allenatore della prima squadra del Romagna, e gli altri allenatori sparsi nel territorio. Portiamo avanti un progetto di giocatori potenziali, che sono seguiti nel corso dell’anno con schede di palestra e allenamenti congiunti con la prima squadra, volti ad un inserimento progressivo.

 

Nella rosa della prima squadra ci sono ben 28 ragazzi del vivaio. Pensi che questo vi penalizzi in termini di risultati?
Innanzitutto è motivo di orgoglio e segno che il progetto dà i suoi frutti. Poi certo, la condizione economica attuale ci ha anche costretto a rivedere le cose e per quest’anno ad accelerare l’inserimento dei ragazzi. Abbiamo pagato in termini di esperienza e di incapacità gestire la partita. La A1 e A2 sono campionati strani, con società che fanno scelte diverse l’una dall’altra. Certamente chi non può permettersi giocatori di un certo tipo può penalizzare. Ma aver fatto un simile progetto, in un periodo di ristrettezza, ha certamente aiutato. Anche perché se se ne va lo sponsor, puoi comunque contare su delle fondamenta solide.

 

I ragazzi credono nel progetto?
Devo dire che sono molto attaccati alla maglia, che sia quella del club o quella del Romagna. E sono molto attaccati al nostro progetto. Noi glielo spieghiamo, loro ci tengono, e tutta l’attività che facciamo viene fatta in funzione di un obiettivo, che siala A1 o partecipare al torneo di Tolosa. Se al ragazzo di 17 anni gli fai fare 15 selezioni all’anno e poi non gli dai un punto di arrivo potrebbe stufarsi e non sentirsi coinvolto in un progetto. In questo sono molto brave anche le società della base che vivono questa cosa molto positivamente, essendo contente quando il ragazzo ha opportunità. Non vedono passaggio al Romagna come scippo di un giocatore ma come un traguardo raggiunto anche da loro.

 

 

Dopo aver parlato con Giacomo Berdondini, abbiamo fatto due chiacchiere anche con Francesco Urbani,  giovane responsabile tecnico e allenatore della prima squadra, e che in passato è stato allenatore dell’Italia Under 16.
In cosa fare il responsabile tecnico di un simile progetto è diverso dall’allenare una singola squadra?
La cosa più difficile è conciliare questi due aspetti, perché il lavoro quotidiano deve essere più lungimirante. Bisogna ragionare sul giocatore emergente e non sul fine ultimo della squadra, spostando l’attenzione dalla prima squadra al movimento. Con le altre società coinvolte è un lavoro di coinvolgimento totale, che a volte penalizza la prima squadra a dispetto della crescita del movimento. Ma è la prima squadra che va verso il movimento, e non viceversa. Ed è la crescita del movimento che fa crescere la prima squadra.

 

Il passaggio di un giocatore al Romagna è stato mai vissuto come uno scippo?
Chiaro che l’allenatore in senso assoluto ne soffre. Ma per esempio dall’anno scorso abbiamo formato dei giocatori potenziali che orbitano tra il club e il Romagna. Si allenano con schede di preparazione fisica e ogni 15 giorni partecipano all’allenamento con noi dell’A1. Questi poi riportano la loro esperienza nel club, che di conseguenza si migliora. Non si compensa la perdita del giocatore ma lui ritorna al suo quindici Seniores con un bagaglio in più di esperienza che metterà a disposizione, facendo crescere anche chi non si è allenato col primo quindici della franchigia.

 

Per quanto riguarda il modo di giocare, cercate di uniformarvi da un punto di vista tecnico per favorire il passaggio da un club al Romagna?
Tutte le società hanno condizioni di partenza diverse, dai giocatori agli allenatori e alle strutture. Dare una linea da seguire sarebbe pazzesco. Bisogna capire le diverse realtà e lavorare in funzione di questa, senza forzarla. E a livello di giocatori, se più giocatori hanno più input poi ognuno porta la sua identità. Poi chiaro, le selezioni hanno un loro modo di giocare e il giocatore si adatta. Ma è giusto abbiano un ventaglio di esperienza molteplice. Più che imporre un modo di giocare, vogliamo imporre un modo di fare le cose. In Under 14 tutti iniziano ad allenarci in un certo modo e ad introdurre certi aspetti del gioco, tutti nel minirugby hanno a disposizione un docente attività motorie, per farti due esempi.

 

Quindi salvaguardate le diverse identità delle società alla base della piramide…
Fondamentale è il modo in cui il progetto è stato gestito: non sminuisce o uniforma i club ma ne mantiene alta l’identità. I campanili non vanno abbattuti ma innalzati, perché così cresce piramide. Poi certo, un domani una società potrebbe andare da sola, ma se vertice mantiene una proposta di qualità superiore il discorso non si pone. L’idea è che la piramide è più grande quanto più alte sono le colonne sotto. I campanili ci sono serviti per appoggiarci sopra e guardare un po’ più alto. Poi c’è molta unità. Ti faccio un esempio, una volta ogni quindici giorni la prima squadra va ad allenarsi nei vari campi della franchigia. E magari si va al campo un po’ prima, e si scende in campo prima coi più giovani e poi con la Seniores locale. Tutto questo aiuta a costruire un legame e a radicare l’idea di franchigia.

 

Mi ha colpito il fatto che date sempre una finalità. Molti rugbisti adesso tra i 25 e i 30 anni hanno fatto da giovani un sacco di selezioni, spesso senza nemmeno sapere per cosa e per quale motivo…
La formazione di un giocatore passa sì attraverso allenamenti di qualità, ma senza competizione e agonismo il percorso di un giocatore è monco. Noi tentiamo di mantenere tutto equilibrato, ma l’aspetto della competizione è fondamentale, e abbiamo scelto di dare sempre degli obiettivi che premino chi se lo merita. Poi certo, vanno tarati, bisogna capire quali risultano raggiungibili e quali invece frustanti.

 

Quando eri tecnico federale c’era tutto questo? E cosa cambieresti nell’iter di crescita dei giovani?
Io ridarei più identità e competenze ai club, il cui lavoro si sta sminuendo. Ora il club viene interpretato come qualcosa che recluta il giocatore e lo inizia al rugby, ma poi la crescita è delegata a terzi. Ma in passato si è visto che i club quando messi in condizione di lavorare in un certo modo hanno saputo formare grandi giocatori. Quindi darei più potenzialità ai club. E ridarei indipendenza ai comitati perché bisogna alimentare tutto ciò che è vicino al giocatore e al suo quotidiano. Chi gli sta più vicino, ovvero club e comitato, deve avere più autonomia e margine di intervento. Il giocatore cresce nel quotidiano al club, più che facendo allenamenti con le selezioni una tantum.

 

Sul campo i risultati vi stanno in parte penalizzando. Del resto, un simile progetto è un diesel…
Quest’anno i risultati parlano chiaro, ma l’ambiente è molto sereno. Ed è sereno perché c’era chiarezza dall’inizio sul ricambio e sull’ingresso di ragazzi nuovi. Celo siamo detti apertamente e i ragazzi erano consapevoli a cosa andavano incontro. Nonostante i risultati l’ambiente tiene, ed essendo diesel in prospettiva ci sono belle sensazioni. L’obiettivo era mantenere Serie A, e far crescere il territorio e i giocatori.

 

Di Roberto Avesani @robyavesani

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