Fiji, Samoa e Giappone ci riconsegnano una nazionale che ha toccato il suo punto più basso. A un solo anno dal Mondiale
C’è gente a cui piace andare in vacanza con uno zaino riempito al minimo (tipo a chi scrive, per esempio) così da avere pochi ingombri e la possibilità di imbottirlo di cose prese in giro. Lo zaino, quando si torna, generalmente straborda di cose belle e brutte, ma è pieno.
Lo zaino con cui l’Italrugby era partito lo scorso fine maggio era riempito con poche cose ma è tornato – se possibile – più vuoto. Dentro sono rimaste giusto le sconfitte, che sono anzi aumentate dopo i ko a Fiji, Samoa e Giappone: ora sono 13 in 14 gare, 9 consecutive. Ma per il resto abbiamo fatto come quelli che partono con le scarpe un po’ già andate con l’intenzione di abbandonarle lungo la strada, solo che chi lo fa poi quelle calzature le sostituisce mentre noi siamo tornati a piedi nudi.
Perché in quello zaino, alla partenza, c’era la l’intenzione di migliorare il possesso della palla, di ritrovare convinzione e determinazione dopo una stagione davvero negativa, vincere un paio di partite, ché questo era l’obiettivo. Invece nulla . Il possesso non c’ e quando abbiamo la palla in mano non sappiamo cosa farne, non c’è convinzione e nemmeno determinazione. La disciplina è peggiorata. Giochiamo spesso nella fase mediana del campo se non nella nostra metà, attacchiamo poco e segnamo meno (tre mete tecniche e una con Barbieri il magro bilancio dell’ultimo mese). Di vittorie nemmeno l’ombra.
Lungo la strada abbiamo perso però un pezzo dello zaino stesso: la mischia. E’ vero che già da un po’ non è più dominante come quella di qualche anno fa e che le regole entrate in vigore da 12 mesi non ci hanno aiutato. Però. Contro Fiji abbiamo dominato in mischia ma abbiamo perso, Samoa l’ha annientata e abbiamo perso, il Giappone (!) l’ha sfidata apertamente ed è uscito a testa alta. Vincendo (loro). Sì, è vero il Giappone, può contare su Steve Borthwick e Eddie Jones nello staff tecnico, ma non cerchiamo alibi: quella nipponica è una buona squadra che è sicuramente migliorata molto rispetto a qualche anno fa ma non è certo irresistibile. Fa il suo e lo fa bene ma un’Italia semplicemente normale non avrebbe avuto grossi problemi a portare a caa una vittoria, magari non sberluccicante, ma comunque una vittoria.
Giocatori stanchi (nella testa prima che nelle gambe) che in campo alternano momenti di vuoto pneumatico ad altri in cui cercano di strafare, un ct che deve probabilmente ricucire un feeling con il gruppo (anche con la federazione?) e che ha al pari dei giocatori le sue responsabilità – i cambi in ritardo e non sempre azzeccati, per esempio, sono però una costante della sua gestione – ma da cui non si può prescindere. Giocatori che sembrano sazi di quello che hanno, che hanno perso la fame e la voglia di diventare “più grandi”. Magari non è così ma l’impressione che esce dal campo è quella. E d’altronde alle loro spalle non è che ci siano orde fameliche di giovani pronti a prenderne il posto. Il nostro movimento però oggi è questo.
Lo zaino adesso è lì, impolverato e malconcio. Tra un anno bisogna riprenderlo per andare in Inghilterra, per un Mondiale. I giocatori sono questi sperando di riavere tutti gli infortunati (Morisi, Favaro, Zanni, Gori, Rizzo, Parisse e Castro), ma quella che è da cambiare è prima di tutto la testa e l’attitudine. E’ l’unico modo di riparare quello zaino azzurro, che altrimenti rischia di fare una pessima fine e di perdere il credito messo assieme negli anni. Che i 70mila dell’Olimpico non continueranno a venire a dispetto dei santi.
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