Abbiamo chiesto ad un rugbista di ieri come sta oggi la palla ovale italiana. E cosa si potrebbe fare per migliorare le cose…
Marcello Cuttitta fa parte di quel privilegiato gruppo di rugbisti italiani che c’erano, entrambe le volte. C’era ad Auckland, il 22 maggio 1987, quando giocammo la prima partita della storia della Coppa del Mondo, contro gli All Blacks; e c’era pure a Grenoble, quando il 22 marzo 1997 battemmo la Francia e conquistammo la Coppa FIRA. E’ il miglior realizzatore della storia della Nazionale italiana, con 25 mete internazionali marcate. Viene da una famiglia di rugbisti (il gemello di Massimo è allenatore della mischia della Scozia e pure il fratello Michele giocava), ed attualmente è direttore tecnico del Rugby Lyons Settimo Milanese e presidente degli Italian Classic. OnRugby lo ha intervistato per sapere da un rugbista di ieri come sta oggi il rugby italiano. Non troppo bene, a quanto pare.
Dopo un bel Sei Nazioni 2013 è iniziato per la nazionale un periodo difficile, che ancora oggi va avanti. Quali sono i nostri limiti e cosa ci manca per raggiungere le altre nazionali?
Abbiamo dei limiti sia di natura tecnica che di natura strutturale. Se analizziamo le vittorie del Sei Nazioni 2013 contro Francia e Irlanda dobbiamo ammettere che erano due squadre con molti problemi e tanti indisponibili. La sensazione è che le vittorie delle altre squadre siano strutturate e costruite, mentre le nostre dipendano da fattori più sporadici e occasionali. Del resto nello sport è così: i recenti risultati sono la conseguenza di ciò che abbiamo seminato in passato.
Il blocco dei senatori ultimamente è finito sotto i riflettori
Stando fuori è difficile giudicare, ma qualcosa certamente deve essere venuto a mancare. Siamo in una situazione di stallo, dipendiamo ancora da giocatori con tanti anni alle spalle ma che non sono più decisivi come in passato. L’importante però sarebbe provare anche i giovani, poi nulla toglie che i senatori possano raggiungere traguardi importanti come il cap numero 100. In rapporto però abbiamo più senatori che giovani e i conti non tornano.
Dopo il Mondiale molti si ritireranno a livello internazionale. Siamo pronti?
Il nostro più grosso problema è che abbiamo saltato il ricambio generazionale. Non si sono provati dei giovani prima per poter sperare in risultati positivi che sono arrivati solo in parte. Da questo punto di vista abbiamo avuto poco coraggio, e quando questo blocco se ne andrà il gap sarà ancora maggiore, perché chi li rimpiazza non avrà l’esperienza per giocare tranquillamente. E più si va avanti, più terreno perdi e più è difficile recuperare, perché le altre vanno a velocità maggiore. Poi non basta un nuovo allenatore che con la bacchetta magica ti riporta a livello, serve molto di più, serve avviare un nuovo processo. C’è anche un lato positivo dal ritiro di tanti giocatori: potrebbero diventare una risorsa per il rugby italiano.
Ti riferisci a una carriera tecnica?
Esattamente. Ma la Federazione deve accettare che vadano a formarsi all’estero e poi tornino a casa, perché prima di allenare bisogna imparare. Essere un buon giocatore non significa automaticamente essere un buon tecnico. Questi ex giocatori dovrebbero essere messi a disposizioni delle altri nazionali italiane. Se vai a vedere i risultati negli ultimi cinque Sei Nazioni sia della nazionale maggiore che dell’Under 20, le statistiche parlano chiaro. E’ necessario riprogrammare tutto altrimenti continueranno a non arrivare i risultati.
Ovvero?
L’ideale sarebbe curare la base e legare gli ex giocatori a tutte le nazionali, anche quelle di categoria. Non si deve cercare solo il risultato eclatante con la nazionale maggiore, i risultati arrivano anche curando le selezioni giovanili. Se tu prima semini bene poi qualcosa inevitabilmente torna. Di errori ne sono stati fatti e continuiamo a farli. Per esempio negli ultimi anni i nomi degli allenatori sono rimasti gli stessi, cambiano solo le categorie. I casi sono due: o sono allenatori di ottima qualità e meritano quel posto, e continuiamo a perdere perché sono scarsi i giocatori che hanno a disposizione, oppure sono allenatori appagati e attaccati alla loro sedia. Per questo forse siamo fermi.
Cioè non rimaniamo al passo con i tempi?
Questo rugby cambia alla velocità della luce e se non ti aggiorni sei tagliato fuori. Chi decide di fare del rugby la sua professione deve essere consapevole che senza aggiornamento sei tagliato fuori, se hai deciso di investire in questo e non vai fuori all’estero a vedere come funzionano le cose puoi anche smettere.
Tuo fratello Massimo allena da tanti anni la mischia della Scozia. Cosa c’è di diverso in quel modo di fare rugby?
Lì la concorrenza per entrare in nazionale è tanta. E quando vedono un giocatore non più al top gli fanno capire che c’è qualcuno che preme per entrare, quindi o migliora oppure è tagliato fuori. Lo sport è anche questo, e un giocatore lo accetta con professionalità. Il rugby sta viaggiando ai 300 all’ora, e tutti i quindici in campo devono avere quella velocità, ma anche devono saper riconoscere quando non riescono più a reggerla.
E nel rapporto con le squadre come lavora lo staff della nazionale scozzese?
La nazionale scozzese è in contatto con tutto il rugby di base, sia con le franchigie che con i vari club. Gli allenatori intervengono sulle franchigie, ma soprattutto vanno in giro per la Scozia ad allenare gli altri allenatori, diffondendo la loro idea di gioco. Massimo per esempio allena le prime linee delle accademie, gira per i club, e i risultati si vedono. Lì il ricambio si fa di Test Match in Test Match: vero che perdi tanto a poco contro il Sudafrica, ma intanto hai fatto esordire giovani che fanno esperienza. Il risultato conta fino a un certo punto; prima viene la prestazione.
A proposito di franchigie, come valuti l’ingresso nella Celtic e che risultati sta dando?
Perdere l’opportunità di fare la Celtic sarebbe stato ridicolo. Semplicemente perché è l’anticamera della nazionale, e non è una squadra a parteciparvi ma una selezione. Ora finalmente anche da noi si pesca più dal territorio con permit e giocatori ingaggiati dai club vicini, e questo non può che far bene.
L’ingresso nel torneo celtico ha però inevitabilmente ridimensionato l’Eccellenza e la dimensione di base, anche per una semplice questione di finanziamenti disponibili…
Nel club per cui sono direttore tecnico [Lyons Settimo Milanese, ndr] i nuovi iscritti sono aumentati del 40%. Ci sono sempre più giovani che si avvicinano al rugby, ma non siamo ancora pronti a gestire questi numeri. Ci siamo fatti trovare un po’ impreparati all’appuntamento con il salto di quantità. I club dovrebbero essere maggiormente aiutati nella gestione delle loro risorse, sia da un punto di vista tecnico che dirigenziale. Per quanto riguarda l’Eccellenza rispetto ai miei tempi si parla di una dimensione completamente diversa. Non ci sono più i Campese e i Kirwan che vengono da noi, all’estero c’è l’impronta del professionismo reale, mentre da noi le società hanno ancora uno statuto da dilettanti. All’estero vengono versati i contributi ai giocatori, è un lavoro vero e proprio.
A proposito di Campese, che giocò a Milano. Perché in Italia nelle grandi città metropolitane non si fa più rugby di alto livello?
Questo è un problema davvero grosso, e la causa è una: a Roma e Milano ci sono tante parrocchie, e tutti vogliono comandare. Il maggior serbatoio per un fatto puramente quantitativo sono le grandi città, ma è pazzesco pensare che a parte Roma le prime dieci città italiane per abitanti oggi non hanno una squadra sopra la A1. Lì bisognerebbe investire, ma forse non si fa anche per scelta politica.
A Milano dopo gli anni Novanta il rugby di alto livello è sparito
Qui si riusciva a fare rugby finché c’era il grande sponsor, finché qualcuno era disposto ad investire. E che capiva che fare rugby a Milano costa il doppio rispetto ad una squadra di un paese più piccolo di provincia. Ieri era Berlusconi in Italia, oggi è Mourad Boudjellal a Tolone. L’unica sarebbe investire in queste realtà maggiori. I centri di formazione disseminati in tutta Italia trovano il tempo che trovano: se non ci sono sinergia e collaborazione con i club non servono a tanto.
Nel 2007, anche con il tuo contributo, si tentò di riformare l’Amatori Milano. Ma finì male…
Finché c’erano i giocatori abbiamo onorato il campionato e fatto bene. Quando poi dodici titolari hanno lasciato per problematiche economiche legate alla società sono venute meno le condizioni oggettive per andare avanti.
Capitolo doping. In questi giorni sono uscite le pesanti accuse dell’ex pilone Bénézech. Cosa ne pensi?
Se un giocatore fa queste dichiarazioni qualcosa di vero si presume ci sia. Nel momento in cui il rugby è diventato come ora lo conosciamo, con giocatori sempre più allenati, difese fisiche e perfettamente organizzate, è inevitabile, purtroppo, che qualcuno faccia uso di queste sostanze. Sta alla Federazione e al Coni sensibilizzare soprattutto i ragazzi e fargli capire che ti fai del male se usi certe cose.
Oggi è possibile essere un giocatore di alto livello anche se non pesi 100 chili?
Assolutamente sì. Prima più eri grosso più rompevi le difese, oggi nell’alto livello le difese sono talmente organizzate che anche se sei grosso non passi, quindi serve anche altro. Prendi Etzebeth. Un fisico impressionante, ma anche doti atletiche e di corsa.
In chiusura ti chiedo un paio di cose sulla tua carriera. Quale il momento più bello?
Certamente la vittoria della Coppa Europa a Grenoble e il primo mondiale, in Nuova Zelanda nel 1987. Sono state entrambe grosse soddisfazioni.
E il momento più difficile?
Dopo il 1987 l’Aquila non dette a noi tre fratelli Cuttitta il permesso di giocare a Roma, dove ci eravamo trasferiti. La società che aveva il cartellino aveva un potere pazzesco in mano, e poteva decidere di non farti giocare per altre squadre. Al tempo quella Federazione non fece nulla per risolvere i problemi, ho fatto due anni e mezzo fermo. Poi il Milan acquistò i nostri tre cartellini e tornammo in campo.
Il giocatore più forte con cui o contro cui hai giocato?
Campese era fortissimo, ma per abilità tecniche Mark Ella era un fenomeno.
Un aneddoto?
Coppa del Mondo 1987 in Nuova Zelanda. Stiamo per giocare una partita destinata ad entrare negli annali: è la prima partita in assoluto della storia della Coppa del Mondo, e siamo contro gli All Blacks. Prima di entrare in campo ci raccogliamo in silenzio negli spogliatoi, e un inserviente per aiutarci a rilassare spegne le luci. Dopo pochi istanti in mezzo al buio e al silenzio Stefano Barba grida in romano: “Occhio che questi ci fanno i portafogli”!
Di Roberto Avesani
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