Il “no” allo stadio di Palermo per Italia-Samoa ripropone per l’ennesima volta una dinamica da cui non si riesce ad uscire
Ammettiamolo, quando c’è di mezzo la palla tonda quasi tutti i rugbisti (giocatori, appassionati, addetti ai lavori) hanno una reazione che sarebbe facilmente riconducibile a un “ma cosa vogliono quelli?”. Non che non ce ne siano ragioni. Viviamo in un paese dove non esiste cultura sportiva e in questo il calcio ha grosse responsabilità per il modo in cui è vissuto, anche se va detto che non ne è certo l’unico colpevole. L’Italia poi è una vera e propria dittatura pallonara, con i quotidiani sportivi – tutti – che ingombrano i 3/4 della propria impaginazione con fatti e vicende relative solo a quella disciplina, dove è più facile che trovi spazio l’ultima fiamma o l’ultima taglio di capelli del campione (o presunto tale) di turno che non una vera notizia riferita ad altri sport.
L’enorme diffusione del calcio dà poi inevitabilmente un peso “politico” spropositato a questa disciplina e la recente vicenda relativa alla possibilità che fosse Palermo ad ospitare il test-match di novembre contro Samoa ne è una prova: la FIR che prende contatti con i legittimi proprietari dello stadio in questione – l’amministrazione comunale – e che trova un accordo di massima, poi l’immancabile intervento del presidente della società di calcio che abitualmente utilizza quello stadio e che usa varie allocuzioni per dire sostanzialmente una cosa sola: “Lì ci giochiamo noi, andate da un’altra parte”.
Vero, la vicenda palermitana vede l’entrata in scena della Lega Calcio, l’associazione che riunisce i club italiani, che con una lettera (attenzione: non vincolante) sconsiglia la concessione dello stadio con motivazione agronomiche. Una novità questa ancora da valutare e capire con calma.
Un anno fa era stato Bologna, oggi Palermo, ma anche la questione All Blacks a Milano non era molto diversa. Due anni fa si volevano riportare i tuttineri a San Siro con la FIR che ottiene il “sì” del Comune ma non quello della società creata ad hoc per la gestione del catino meneghino. Un consorzio composto al 50% da quote Milan e al 50% da quote Inter, che paga un consistente obolo annuale al Comune per gestire lo stadio e per poter svolgere qualunque attività extra-calcistica bisogna ottenere il suo via libera. Chi vi scrive ai tempi intervistò l’amministratore delegato, allora in quota Inter, che motivò il “no” con le usuali ragioni: le coppe europee, il campo che si rovina (che in effetti quello di San Siro è sempre in pefette condizioni, già…), eccetera. L’impressione che ebbi fu quella di un totale disinteresse alla cosa, un atteggiamento da “questo posto lo gestiamo noi e del rugby non ce ne frega nulla”.
La cosa tragicomica di queste vicende è che non si può dire che le anime calcistiche coinvolte abbiano torto, hanno anzi alcune ragioni. La società che gestisce lo stadio milanese – per esempio – paga diversi milioni di euro alleggerendo le spese dell’amministrazione comunale, ha quindi tutto il diritto di dire la sua. Così come altri club in altri luoghi che versano canoni d’affitto. La Lega calcio riceve una valanga di euro dalle televisioni che vogliono anche campi quantomeno passabili, normale che difenda i suoi interessi privati. E i presidenti dei club calcistici? Beh, su molti di loro bisognerebbe scrivere un trattato di psicanalisi ma oltre a spendere tanti soldi vivono in un mondo in cui sono abituati a sentirsi dire sempre di “sì”. Lo so, questa non è una “ragione” a favore del calcio, ma è un fattore che va preso comunque in considerazione.
Chi esce sempre sconfitto non è il rugby, non solo almeno, ma le amministrazioni locali. Che oltretutto sono i proprietari del 99,99% degli stadi italiani ma che generalmente si limitano a incassare un affitto, pagarne i conti e i costi di gestione. D’altronde anche gli amministratori voglio essere rieletti e là fuori ci sono più appassionati di calcio che non di rugby. Quindi, se il calcio chiede il calcio ottiene.
Come se ne esce? Non c’è una soluzione unica (magari…) ma una serie di provvedimenti potrebbero aiutare. Il CONI per esempio dovrebbe far sentire la sua voce e il suo peso anche in fase di trattativa, che intervenire quando la frittatata è fatta non serve un granché; le amministrazioni locali nei tanti e diversi contratti che stipulano con le squadre di calcio dovrebbero inserire clausole a tutela propria e degli spazi per le altre discipline, che non devono essere costrette a sperare nei chiari di luna positivi del presidente di turno. Queste le cose che darebbero qualche risultato nel breve termine.
La cosa migliore, ma più lunga, è quella di riuscire finalmente a far capire a questo paese cosa è una vera cultura sportiva, aperta a tutte le discipline. Fantascienza?
E poi c’è una domanda/riflessione che mi rimbalza in testa ogni volta che succedono queste cose: ma noi davvero siamo convinti che in questa situazione sia possibile organizzare un Mondiale al di qua delle Alpi? A OnRugby siamo i primi tifosi dell’eventualità di tenere in Italia un torneo iridato, ma se vogliamo ragionare a mente fredda non si possono non avere dubbi sulla fattibilità della cosa: per organizzare una RWC servono 10-12 stadi e noi dovremmo ricorrere per il 100% a strutture adibite al calcio nel pieno della stagione pallonara con campionato e coppe in pieno svolgimento. La cosa ci pare difficile, ed è un eufemismo.
Il Grillotalpa
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