Perché i Waratahs hanno vinto? Perché hanno giocato come gli All Blacks. Che prima di ogni RWC calano nuove carte…
Il Super 15 appena concluso ha incoronato i Waratahs di Michael Cheika campioni dell’emisfero sud per la prima volta nella storia, riportando al vertice una franchigia australiana solo per la seconda volta negli ultimi dieci anni dopo i Reds del 2011. La squadra di Sydney ha dominato la stagione regolare sul campo, dimostrandosi la squadra migliore per realizzazione di mete e di bonus offensivi, ed è risultata inoltre imbattuta in casa e quella che ha concesso meno punti agli avversari. Nonostante questo dominio su tutti i fronti è riuscita a spuntarla solo per un punto sui Crusaders di McCaw e compagni che molti comunque davano per favoriti.
Innanzi tutto una finale è sempre una finale. È la partita da vincere, le componenti mentali ed ambientali hanno un peso importante, la capacità di reggere la pressione e le aspettative è determinante ed in fatto di personalità ed esperienza i neozelandesi di Christchurch partivano da una posizione di vantaggio. Gli ottanta minuti giocati sul campo hanno detto molto di più di questi ragionamenti metafisici che alla fine dei conti hanno influito in maniera marginale a mio giudizio. I Waratahs di quest’anno hanno un gioco straordinario, super organizzato, come da tradizione australiana, ma che per intensità fisica e tecnica non ha eguali.
Nonostante una fase statica traballante i giocatori di Cheika hanno sfidato frontalmente gli avanti neozelandesi, portando avanti per linee verticali e sempre sulla linea del vantaggio la palla. Negli ultimi tempi al contrario si vedono sempre più squadre che cercano di muovere la palla tra i giocatori della stessa “mini-unit” di avanti. Questo viene fatto per non dare all’avversario troppi punti di riferimento su chi sarà il portatore da placcare. Teoricamente è una tattica sensata, ma a causa di linee di difesa sempre più fitte e competenti questa soluzione risulta a volte inefficace perché mette il portatore finale in una situazione di difficoltà. Ricevendo la palla più vicino al placcaggio, il giocatore con la palla ha meno tempo di impostare la collisione e più risultare più vulnerabile non solo al primo placcatore ma anche ai giocatori che successivamente cercano di mettere le mani sull’ovale. Inoltre i compagni del placcato sono qualche frazione di secondo in ritardo sul sostegno per aver appena passato la palla o per essere stati a loro volta un’opzione di passaggio.
Tutte queste situazioni si giocano su piccoli attimi persi o guadagnati, su piccoli avanzamenti vinti o lasciati all’avversario, ma in un rugby che viaggia a velocità sempre più grandi fa un enorme differenza sulla capacità di squilibrare le difese avversarie. Andando contro corrente gli avanti australiani hanno dominato il ritmo della collisione. Attaccando i canali in maniera diretta e offrendo sempre più di un’opzione ai propri playmaker hanno costretto i difensori neozelandesi a subire l’inerzia dello scontro. Questo ha obbligato McCaw e Todd a forzare oltre misura il break-down per rallentare la palla, con il risultato di regalare penalità importanti al piede di Foley. Questo dominio però sarebbe risultato poca cosa se i Waratahs non avessero avuto la capacita di verticalizzazioni brucianti anche sugli spazi allargati. Il lavoro ai fianchi degli avanti australiani aveva l’obiettivo di rallentare la riorganizzazione della linea di difesa dei Crusaders, che si trovava costretta a scalare all’esterno per recuperare l’inferiorità numerica. In queste condizioni le rasoiate di Folau e soprattutto Ashley-Cooper hanno trovato i varchi giusti tra le spalle “deboli” dei difensori di Christchurch.
Questi due ingredienti fondamentali del rugby dei Waratahs poggiano le fondamenta sulla capacità dei giocatori australiani di esprimere un gesto tecnico di assoluta precisione ad una intensità che nemmeno i giocatori neozelandesi hanno saputo arginare. Attaccare la linea di difesa all’altezza imponendo sistematicamente la collisione con gli avanti, passare la palla al largo sempre vicino alla linea di vantaggio con assoluta precisione e con linee di corsa perpendicolari alla difesa, per esporre i difensori esterni che si trovano in ritardo, è una caratteristica che solo i giocatori meticolosamente allenati riescono a sviluppare e far propria con questa efficacia.
Non tutto oro è quello che luccica però, perché è pur vero che i Crusaders hanno giocato la loro partita, riuscendo in molte occasioni ad arginare le folate dei trequarti australiani. Dove il quindici di Todd Blackadder ha peccato soprattutto nel primo tempo è stata la copertura del campo profondo. In almeno tre occasioni nella prima frazione Nadolo è stato esplorato e trovato fuori posizione dai calci millimetrici di liberazione australiani. Questo ha permesso ai Waratahs di risalire il campo più facilmente del dovuto e di scagliare le frecce a loro disposizione. Quando infatti il triangolo allargato dei Crusaders , nel secondo tempo, ha iniziato a funzionare a dovere e le fasi statiche degli australiani hanno iniziato a traballare, McCaw e compagni sono tornati prepotentemente in partita, rischiando anche di ribaltare il risultato. Questa finale di Super 15 ha confermato quanto già visto l’anno scorso nel Championship e cioè che è molto più importante l’occupazione territoriale del possesso fine a se stesso.
Pochi forse si sono resi conto che nel Championship dello scorso anno, dominato dalla Nuova Zelanda, proprio i kiwi sono stati la squadra che più ha calciato i possessi avuti nei propri 40 metri. Sempre calci utili, alti a recuperare o lunghi a superare il triangolo allargato avversario per risalire il campo, ma pur sempre una tattica che passa per i piedi e non per le mani.
Credo che questo trend verrà confermato anche quest’anno. L’incontro di cartello della prima giornata è senza dubbio Australia – Nuova Zelanda, un remake della finale di due settimane prima tra Waratahs e Crusaders. Interessante sarà vedere gli Aussie riproporre il tipo di gioco sopra descritto, con la solidità di conquista di molti degli avanti Brumbies.
Gli All Blacks dal canto loro stanno passando una fase di destrutturazione del loro gioco, come già successo un anno prima dell’ultima coppa del mondo, quasi a non voler dare punti di riferimento agli avversari. Fino ad ora questa tattica è bastata grazie allo straordinario adattamento dei giocatori kiwi alle varie situazioni. I Crusaders stessi infatti sono riusciti a segnare solo in situazioni “rotte” da turnover o da palloni calciati dagli avversari senza che questi avessero una buona linea di difesa. Non credo che questa tattica sarà sufficiente per riconfermarsi campioni, anzi probabilmente la squadra di Steve Hansen sarà costretta a scoprire un po’ di più i suoi schemi come si è visto già nel terzo test di giugno contro l’Inghilterra. Proprio in quella occasione si è evidenziata la capacità di Carter e compagni di segnare o quanto meno squilibrare la difesa in modo determinante nelle prime due fasi di gioco, grazie a movimenti studiati ad hoc che esploravano le “cattive abitudini” difensive degli avversari.
Di Marco Bortolami
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