Per una settimana Diego Dominguez scende in campo come allenatore, spostandosi in varie località del Veneto per stage con i giovani delle selezioni del Comitato Regionale
Il suo carisma, a dieci anni dal ritiro, rimane intatto: fra la gente di rugby il numero 10 di Cordoba è accolto sempre come una stella, quale in effetti è stato in Italia ma anche oltre le Alpi (lo Stade Français con i suoi calci portò a Parigi quattro Bouclier de Brennus).
Dominguez ricambia con la sua inesauribile disponibilità e con una esemplare voglia di vestire ancora tuta e scarpe tacchettate, per respirare l’atmosfera del campo e trasmettere le sue esperienze. Visita spesso i club, anche i più isolati, in questi giorni la stessa consulenza per il Comitato Regionale Veneto è volontariato puro. Perché lo fa? «Dal rugby ho ricevuto molto, in Argentina, in Italia, in Francia», spiega, «oggi sento il bisogno di restituire qualcosa a mia volta. Soprattutto al rugby italiano, che quando avevo 19 anni mi ha aperto le porte, mi ha regalato una possibilità per diventare professionista e confrontarmi ad alto livello».
Dominguez parla nella club-house del Rugby Riviera. Prima squadra in serie C, tanto lavoro con le giovanili e le scuole, presidente e responsabile tecnica con tanta esperienza di campo come Flavio Lupato e Samanta Botter: uno dei tanti piccoli club sul territorio, dove anonimi eroi del quotidiano permettono a circa duecento ragazzi di praticare sport, colmando una drammatica lacuna della scuola italiana.
Poca gloria, tutta sostanza, siamo a Mira ma l’esempio vale per ogni altra realtà di base. E di fronte alla crisi di risultati del rugby italiano, Dominguez indica il punto di rilancio proprio nei club.
«Vedere perdere la Nazionale mi fa molto male, credo che il movimento abbia bisogno di una netta rottura con quanto fatto finora, di una vera rivoluzione culturale», dice l’ex apertura, forse il miglior azzurro di tutti i tempi e a tutt’oggi quinto marcatore del rugby mondiale con 1010 punti,«dal mio ritiro nel 2004 il sistema delle Accademie non ha prodotto un solo fuoriclasse, i migliori non vi sono passati e altri, come Parisse, sono stati formati in Argentina. Bisogna rimettere i club al centro del movimento, dotarli di strutture adeguate, tornare al senso di appartenenza. L’Italia ha ricche risorse economiche che riceve dall’International Board, ma vanno gestite per far crescere la base. Attenzione, se non si cambia nel giro di pochi anni non solo l’Argentina ma con i progressi attuali anche il Giappone e la Georgia saranno irraggiungibili».
Sullo sfondo si staglia uno dei dibattiti cruciali del rugby italiano di oggi, quello che divide su Accademie e Centri di Formazione voluti dalla Fir e su un monopolio della formazione degli atleti che di fatto esautora il ruolo delle società (costando peraltro più di 5 milioni di euro a stagione).
Dominguez lavora in questi giorni giorni proprio assieme a ragazzi che non rientrano nel percorso “accademico”, sposando l’idea di Marzio Innocenti. Un progetto «alternativo ma non contrario rispetto alla linea tecnica della Fir, con la quale c’è un confronto sereno», precisa il presidente del CRV, «se i Centri di Formazione posso essere efficaci in determinate aree geografiche, il modello va invece valutato diversamente in Veneto che ha una sua specificità rispetto al resto dell’Italia. Troppi i giocatori che già a livello di under 18 sono definitivamente esclusi dall’alto livello».
Il nocciolo del problema è la qualità dei tecnici, dunque la qualità dell’insegnamento. Opinione diffusa fra i dirigenti di club e confermata da Dominguez, che è stato da giocatore un modello di abilità tecniche e di intelligenza a fronte di una taglia fisica da peso welter (e 1,73 di altezza). «A livello giovanile si dovrebbe ritornare ad insegnare con cura i fondamentali, e dovrebbero farlo allenatori competenti. Fino a 15 anni il lavoro deve essere solo sulle skills individuali. E le cose essenziali sul rugby si imparano dentro il club, che deve essere di riferimento nella crescita fino alla prima squadra».
Cittadino del mondo, Dominguez ha scelto intanto la Nuova Zelanda per il completamento del percorso di formazione del figlio Piero (nella foto), mediano di mischia da quest’anno in forza a College Rifles, prestigioso club diAuckland. «Un giorno mi ha detto: voglio provare a diventare un rugbista professionista. Abbiamo parlato di quale splendida esperienza possa essere ma soprattutto dei molti sacrifici che comporta. Per arrivare in alto ci vuole lavoro quotidiano, ci vogliono testa e palle. Perché la Nuova Zelanda? Perché vi si gioca un rugby di altissimo livello e soprattutto perché la competizione per emergere è durissima fin dal livello giovanile. Senza dimenticare lo studio, comunque: fra poco Piero comincerà l’università ad Auckland».
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