Luci e ombre dietro la scrivania: stavolta parliamo di dirigenti

Giocatori, tecnici, arbitri. Il mondo del rugby discute spesso di queste categorie e si “dimentica” di un’altra molto importante

ph. Chris Wattie/Action Images

Di giocatori parliamo tantissimo, così come di tecnici. I media che si occupano di cose ovali trattano poi meno spesso di arbitri, ma capita. C’è però una categoria che sembra essere quasi del tutto fuori dai radar: i dirigenti. Eppure è importante, decisiva. Sì dirà: parliamo spesso del presidente federale Alfredo Gavazzi, ma è l’eccezione che conferma la regola. Lui è l’istituzione che gestisce il rugby italiano, inevitabile che se ne parli. Se fosse ancora al Calvisano occuperebbe grandi spazi su questo e altri siti, quotidiani e simili? No.
A parte il numero uno FIR i dirigenti che finiscono nel calderone della cronaca quotidiana sono davvero pochi, a ben pensarci: un paio federali (Ascione, Checchinato: ma mica poi tanto), qualcuno a livello di club come Amerino Zatta per il Benetton Treviso o Francesco Zambelli per Rovigo per l’importanza delle piazze, poi molto poco o quasi nulla.
No, non stiamo facendo una classifica della popolarità di chi si siede negli uffici del rugby italiano, anche perché la questione cruciale non è che si parli di Tizio o di Caio e non di Sempronio. La vera questione è la preparazione media dei dirigenti italiani, il chiedersi se sono all’altezza del compito – importantissimo – che hanno.

 

L’impressione è che il panorama generale non sia dei migliori. Intendiamoci, ci sono mille eccezioni e mille esempi positivi, ma se dobbiamo tinteggiare un quadro complessivo è la tonalità grigia a dominare. Il fatto è che spesso siamo i primi a fermarci e ad accontentarci della passione, all’amore per la palla ovale, alla disponibilità, caratteristiche queste di cui siamo ricchissimi ma che non possono bastare. Non in un mondo che volenti o nolenti tende verso il professionismo, quantomeno come obiettivo finale.
Quello del dirigente è un compito difficile, che riserva molti oneri e spesso pochi onori. Chi si incarica di dirigere una società deve dibattersi in mille difficoltà pratiche, logistiche ed economiche. Non diciamo nulla di nuovo, soprattutto se si pensa al rugby di base. Ma è nei livelli medio-alti che si notano le maggiori carenze, perché in quelli medio-bassi la passione e la volontà di cui sopra abbiamo parlato a volte – non sempre però – possono bastare per i panorami inevitabilmente più limitati.

 

Per l’alto livello (ci mettiamo anche l’Eccellenza nel calderone, che è propedeutica al salto verso franchigie e nazionali. O dovrebbe esserlo) il discorso cambia e i paragoni con le altre realtà si fanno più pesanti. Il gap è evidente. E si tratta di un gap fatto non solo di scelte ma anche di formazione della stessa classe dirigenziale.
Sul primo fronte, quello delle scelte, c’è ad esempio l’incapacità di fare programmi a media-lunga scadenza, il respiro delle politiche perseguite riguarda spesso solo la stagione in corso o poco più. Siamo magari bravi a vivacchiare e a tenere botta ma le aspettative e spesso anche gli annunci fatti dagli stessi dirigenti prefigurerebbero ben altri panorami. Comprensibile forse per l’Eccellenza (ma non dovrebbe comunque essere così), non per il resto. Va però detto che questo tipo di scelte e leivello medio dirigenziale in qualche modo si tengono tra loro.
La formazione? La maggior parte dei nostri dirigenti sono ex giocatori che poi hanno fatto la trafila (spesso nemmeno troppo lunga) negli uffici delle società che li hanno visti protagonisti in campo. Che può andar bene, per carità, ma manca tutto quello che chiameremmo in maniera un po’ grezza “aggiornamento professionale”, la frequentazione e la reale conoscenza di realtà altre e dalle quali dovremmo invece attingere a piene mani. Il respiro è insomma limitato.

 

Una buona soluzione sarebbe quella di far ricorso anche a figure che non provengono direttamente dal mondo del rugby ma con solide esperienze aziendali, le più disparate che tanto c’è bisogno di tutto. Ma qui ci si scontra con l’incapacità – il più delle volte per ragioni culturali – di aprirsi al diverso o a chi non ha vissuto un numero ritenuto sufficiente di terzi tempi.
Conseguenza quasi diretta diventa la predisposizione a circondarsi di uomini scelti in base all’appartenenza più che alle capacità – cosa vera in realtà per molte cose italiche, non solo nel rugby – con non solo inevitabili ricadute sulla qualità delle politiche ma che diventa un ostacolo anche nel riconoscimento di problemi e criticità, imponendo al contempo una sorta di inamovibilità degli stessi dirigenti. Quale che siano i risultati ottenuti (cosa questa però più vera in ambito federale che di club).

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