Annunci e niente stadi: come costruire un Mondiale italiano?

Due anni fa OnRugby esprimeva dubbi circa la fattibilità attuale di una candidatura italiana per la RWC. Le cose non sono cambiate

ph. Mike Hutchings/Action Images

Rieccoci giocoforza a parlarne. di cosa? Ma della ipotetica candidatura dell’Italia a ospitare la RWC 2023, ovviamente. Tra 2012 e 2013 se ne era parlato a più riprese ma sempre in maniera spot, mai organica, e a tirar fuori l’argomento è quasi sempre stato il presidente federale Alfredo Gavazzi ma il tema sembrava essere uscito dai radar. Fino a un paio di giorni fa, perché in un intervento a margine della presentazione dei test-match di novembre al CONI il numero uno del rugby italiano è tornato a parlarne. Anche qui un accenno o poco più.
Giusto per sgombrare il campo da equivoci, OnRugby sarebbe felicissimo di sostenere una candidatura in tal senso. Ma davvero tanto. Il fatto è che per mettere in piedi un dossier simile c’è la necessità di un grande lavoro di preparazione a tutti i livelli mentre l’impressione è che finora ci siamo trovati di fronte solo ad annunci.

 

Intendiamoci, non a una boutade, che siamo convinti che davvero la FIR pensi che prima o poi il torneo iridato lo si possa tenere al di qua delle Alpi, però la fase operativa è un’altra cosa. Le edizioni dei Mondiali 2023 e 2027 saranno assegnate dall’IRB verosimilmente nel corso del 2017. Prima di quella data l’Italia deve affrontare e risolvere questioni politico/diplomatiche tutte interne per poter presentare una candidatura credibile. La più evidente – ma di sicuro non l’unica – è quella degli stadi, da ottenere dalle amministrazioni comunali ma che sono spesso controllati di fatto dagli interessi del calcio. E stiamo oltretutto parlando di strutture che nella maggior parte dei casi necessiterebbero di pesanti lavori di ristrutturazione se non ricostruzione. Un tema che la stessa palla tonda sta affrontando da tempo senza venirne a capo.
Ma i nostri dubbi li abbiamo esposti già due anni fa, in un articolo pubblicato il primo novembre 2012 e da allora le cose non sono cambiate. A meno che non si pensi che l’organizzazione di un Mondiale Juniores possa essere minimamente paragonata a una edizione della RWC. E ci spiace doverlo sottolineare, ma ogni anno i mesi prima dei test-match autunnali ci ricordnoa che la realtà è che facciamo fatica ad ottenere senza intoppi le strutture dove tenere tre singole partite in cui gioca la nazionale azzurra. Un Mondiale ha 48 gare.
Vi riproponiamo un ampio stralcio di quel pezzo del 2012. Voi diteci cosa ne pensate.

 

Tutto bene, o quasi. Perché di fronte a un evento simile – che non può non trovare il plauso di tifosi, appassionati e addetti ai lavori – c’è un “ma” enorme, rappresentato dalle strutture che dovrebbero ospitare le partite. Gli stadi italiani, tranne in rarissime situazioni, sono in una condizione che definire difficile è poco. L’intero mondo del calcio aspettava come una manna l’assegnazione degli Europei per spingere il governo a varare la legge sugli stadi che giace come lettera morta da tempo in Parlamento. Sostanzialmente il mondo della palla tonda chiedeva che fosse lo Stato ad accollarsi il riammodernamento delle strutture. Gli Europei non sono arrivati e gli stadi rimangono quello che sono. Qualcuno (leggi la Juventus) si è mosso è si è costruito uno stadio di proprietà, altri stanno muovendo nella stessa direzione anche se molto lentamente.

 

Perché questo panigirico sul calcio? Perché volenti o nolenti da lì dobbiamo passare se l’Italia vuole davvero organizzare la RWC2023, da quegli stadi. E qui, oltre al problema meramente strutturale, si arriva a uno decisamente politico, ovvero convincere il mondo del pallone a rinunciare – in parte – ai suoi stadi per una cinquantina di giorni tra settembre e ottobre. Un periodo dell’anno in cui partono i campionati e le coppe europee.
Dice: ma in Inghilterra molti degli stadi che ospiteranno la RWC 2015 sono normalmente usati dai club di quello sport, loro una quadra l’hanno trovata. Tutto vero, con alcuni però. Che trovare quell’accordo non è stato comunque semplicissimo, ad esempio. Oppure che quegli stadi sono di proprietà delle stesse società che li utilizzano, cosa che snellisce e velocizza non poco le trattative: un conto è sedersi a un tavolo con il consiglio direttivo di un club, un altro è avere a che fare con giunte che devono poi rendere conto a un consiglio comunale, provinciale o regionale. I tempi sono inevitabilmenti diversi. E che, spiace dirlo, dalle nostre parti non c’è la cultura sportiva e dello sport che invece alberga al di là della Manica.
E poi c’è il vero vulnus: noi speriamo ovviamente di sbagliarci e di essere smentiti, ma le dirigenze delle squadre di calcio italiano non sembrano mediamente “illuminate” a sufficenza per poter mettere da parte per una manciata di settimane i loro interessi anche a fronte di un evento di livello globale (il Mondiale di rugby, lo ricordiamo, è il terzo evento per giro d’affari e di tifosi dopo Olimpiadi e Mondiali di calcio). Purtroppo gli esempi si sprecano in questo senso…

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