Cosa lascia il passaggio degli All Blacks negli USA

Il campo di Chicago ci dice poco sul rugby giocato, qualcosa di più su quello che gira attorno. E poi Cruden, Carter e SBW…

Disegno di Andrea Porcu

La partita di apertura dell’End of Year Tour 2014 per gli All Blacks offre tanti spunti di dibattito. Tutti fuori dal campo, perché in quello si è visto poco e niente. “Hold that thought”, ci torneremo più in là.
Nel prepartita, Aaron Cruden lamentava il vento di Chicago, conosciuta come la città più ventosa a dir suo. Quasi un appiglio che il mascalzone al dieci necessitasse per mettere le mani avanti. Il “fino ad allora super freddo” Cruden si è sciolto come la neve che è caduta sul Soldier Field venerdì e ci ha offerto una partita ampiamente al di sotto delle sue capacità, sbagliando praticamente ogni calcio da ogni angolazione possibile. Il vento! Direte voi. No, Cruden stesso. Diremo noi. Perché quando poi il re dei re, Dan “The Man” Carter, è apparso in campo per il suo cameo americano li ha infilati tutti, i calci. Dal primo all’ultimo.
La bravata di Cruden, oltre alle varie punizioni assegnatagli dalla NZRU e probabilmente dalla moglie (forse dovrà stirare mutande fino alla coppa del mondo in Inghilterra) ha avuto un ben più pesante tornaconto per il giocatore: la dissociazione psicologica, cioé la distrazione, il senso di colpa, la caduta di confidenza che ha influito nella partita al Soldier Field. Da numero due a numero tre. Con un numero uno che Mister Steve Hansen dovrà snodare nei prossimi giorni per la sfida contro l’Inghilterra.

 

In concreto la partita di Chicago ha portato più grattacapi che piaceri alla corte dei selezionatori kiwi: Corey Jane (coscia) e Nathan Harris (caviglia) sono stati imbarcati su un aereo per Auckland e salterannno tutto il tour europeo. Mentre all’ala gli All Blacks sono ben coperti, nella posizione di tallonatore hanno problemi a non finire. Al momento solo Keven Mealamu e Dan Coles sono in grado di giocare a “ABs stardard”. Si scherza su Hansen in versione David Bowie per “Ground control to major Tom” o ET “telefono casa” rivolte al pensionato Andrew Hore. In realtà i selezionatori avevano altri due apprendisti, Liam Coltman e Rhys Marshall, che lo scorso anno affiancarono la nazionale durante il Rugby Championship e probabilmente punteranno su uno di loro.

 

Non si può non parlare di Sonny Bill Williams, l’unico giocatore di rugby a figurare nella lista dei 50 sportivi più “markettabili” al mondo, un atleta completo capace di tutto, soprattutto di generare amore isterico e odio a pelle. Per noi c’é completa ammirazione e rispetto. E lo dichiara una volta per tutte anche Steven Hansen in conferenza stampa. L’allenatore infatti rivela il livello di professionalità di SBW, che ha ricevuto il Man of the Match a Chicago, dicendo che mentre giocava con i Rooster quest’anno Sonny aggiungeva ore e ore di lavoro privato per mantenere le sue skills a 15 seguendo un programma visionato dagli All Blacks.
Aggiunge poi – Hansen – che prima della Grand Final del torneo NRL 2014 SBW si è fatto mandare tutta la documentazione su giocate e movimenti del ruolo di second five-eight che avrebbe ricoperto in questo tour. Può dar fastidio a molti, probabilmente pura gelosia, che Williams si muova tra i due codici, ma sta di fatto che se il capo indiscusso dei campioni del mondo lo ritiene una pedina fondamentale nel cammino verso l’Inghilterra nel 2015, se lui stesso ne apprezza la professionalità, l’etica lavorativa e la determinazione dell’uomo prima che del giocatore, chi siamo noi per giudicare da fuori? Sonny Bill può solo aggiungere talento e fame di successo ad una squadra pregna di estro, di volontà e di vocazione alla perfezione.

 

Una squadra che, anche con tanti eroi messi a risposo, ha maciullato la controparte americana e qui riprendiamo quell pensiero che abbiamo parcheggiato all’inizio. Diciamocelo, da un punto di vista di gioco ci siamo mezzi addormentati dopo venti minuti. Gli americani non hanno dato nulla al tabellone del risultato che si stagliava nel cielo di Chicago. Ci ricorda un po’ le mazzate che gli Azzurri prendevano negli anni ’90 dai tuttineri. E ci si chiede se veramente il rugby può entrare con successo nel mercato americano. Quello a 15, perché il sette è tutto un’altro discorso, sono due sport diversi, con giocatori diversi, con contratti diversi, con caratteristiche diverse ed esposizione mediatica diversa.
Si parla sempre degli Stati Uniti come il gigante addormentato. Beh, sta dormendo tanto negli ultimi anni. Nonostante abbia una grande penetrazione a livello collegiale, lo sviluppo dei giocatori non si riproduce poi a livello club, dove comunque le opportunità di marketing e media non hanno lo stesso valore del cugino ristretto a sette e soprattutto non ottiene fondi governativi in vista delle Olimpiadi.

 

I sessantamila e più spettatori al Soldier Field non sono una indicazione dello sviluppo del rugby nel territorio. Sono una prova che il marchio All Blacks incuriosisce, che la partnership con l’AIG dà i suoi frutti, che il dipartimento marketing/commerciale della NZRU fa un enorme lavoro per elevare il valore del marchio stesso nei mercati che contano, cioé che portano soldi nelle casse kiwi per poter mantenere la baracca. Tutto ciò non ha il minimo riscontro e impatto sui programmi di sviluppo alla base americana. Si, certo magari bambini nella zona di Chicago andranno a provare il rugby e sogneranno magari di poter affrontare l’haka un giorno, ma la cura necessaria per costruire giocatori dall’età adolescenziale fino alla maturità atletica è ben altra cosa, che purtroppo neanche la classe All Blacks vista sabato può elevare. Quello è il lavoro di amministratori con conoscenze specifiche, con esperienza comprovata e attitudine oltre il gioco stesso.

 

di Melita Martorana

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