Avere un presidente che si occupa dell’aspetto sportivo è una nostra peculiarità da tanti anni. O un’anomalia?
Chiudete gli occhi e provate a pensare ai grandi paesi di Ovalia, quelli del Sei Nazioni e le quattro big dell’Emisfero Sud che si giocano il Rugby Championship: in quali di questi movimenti il presidente della federazione scende nei dettagli tecnici con grande frequenza e profondità? Sostanzialmente in nessuno.
Inghilterra, Irlanda, Scozia e Galles? No. Sudafrica, Nuova Zelanda e Australia? Nemmeno. Argentina e Francia? Un po’ di più, e probabilmente non è un caso che si tratti dei due paesi latini. Crediamo di non sbagliarci nel dire che sia però il nostro movimento quello in cui questa cosa accada più spesso.
Intendiamoci, non è una novità: l’attuale presidente, Alfredo Gavazzi, quando c’è da disquisire di dettagli tecnici non si tira mai indietro (e le dichiarazioni rilasciate al Gazzettino un paio di giorni fa ne sono un esempio), ma non è che quando alla guida della FIR c’era Giancarlo Dondi le cose fossero poi così diverse. Anche all’ex presidente piaceva parlare di contenuti tecnici, di allenatori, di tattica e di giocatori.
Probabilmente si tratta di una questione culturale, non c’entrano Gavazzi e Dondi. O meglio, quei due dirigenti sono cresciuti nello stesso ambiente culturale che di questa commistione “politico-tecnica” non si è mai curato un granché, e che anzi è stato uno dei caratteri che lo ha contraddistinto.
Nel resto di Ovalia non è così: il presidente ha una funzione politico-istituzionale, il ct o il director of rugby gestiscono l’aspetto puramente sportivo del movimento in maniera più o meno larga a seconda del tempo e dello spazio, ma è rarissimo trovare dei “chairman” che disquisiscono del numero di aperture et similia. Per non parlare dei tanti paesi in cui tra la figura del presidente e quella del responsabile tecnico si inserisce quella del CEO, vero braccio operativo della federazione.
Non che non ne abbiano le capacità, di disquisire di tecnica intendiamo, ma il fatto è che il loro ruolo è un altro: i presidenti devono trovare accordi politici e sponsorizzazioni per far crescere il loro movimento, alle partite ci pensa qualcun altro che comunque alla fine deve riferire a loro.
E’ un male questa commistione? Chi scrive pensa che la cosa migliore sia tenere separati i due aspetti, ma in sé una qualsiasi organizzazione non può dirsi migliore di un’altra a prescindere, come direbbe Totò. A dirci che generalmente una struttura è meglio di un’altra sono la prassi e i risultati ottenuti.
In un sistema in cui la distinzione tra aspetto politico/rappresentativo e tecnico è molto labile un allenatore può facilmente essere di fatto commissariato: quando si dice che in Italia anche Graham Henry otterrebbe risultati scarsi senza un profondo cambio della struttura si intende proprio questo. In un sistema “misto” alla fine e alla lunga l’appartenenza contano più dei risultati. Succede così anche al di fuori del rugby. Anche perché, per quanto ci riguarda, la produzione dei giocatori è ancora quella che è.
Tensioni simili ci sono ovviamente anche altrove, l’equilibrio non è sempre stabile. Soltanto ieri il presidente della federazione gallese Gareth Davies ha provato fino all’ultimo a portare ai Dragons di Newport Dan Lydiate, ma alla fine il flanker è andato agli Ospreys, ovvero dove voleva che finisse il ct Warren Gatland, l’uomo che ha i mano le redini tecniche del Galles.
Ma l’impressione è che alle nostre latitudini la cultura dell’uomo solo al comando sia troppo radicata. Chissà, forse un giorno vedremo un responsabile tecnico che proverà a dire a un presidente federale cosa deve fare con gli sponsor. Ma siamo pronti a scommettere che il presidente di turno non la prenderebbe un granché bene.
Il Grillotalpa
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