Abbiamo intervistato l’ex pilone azzurro, che sulle polemiche passate dice: “Nulla di personale, solo spunti diretti in buona fede”
I numeri di Andrea Lo Cicero parlano da soli. Classe 1976, 77 presenze in Top 14 e 18 in Heineken Cup, ma soprattutto ben 103 con la Nazionale azzurra. E’ uno dei pilastri del gruppo azzurro dell’era Sei Nazioni, torneo che ha onorato per ben 49 volte. Fuori dal campo è una persona molto diretta, dice ciò che pensa e questo in passato ha dato adito a polemiche che, ci ha assicurato, non era sua intenzione sollevare. Da fuori, e da ex professionista, vede i problemi del rugby azzurro e le poche prospettive che i giovani trovano nella nostra Penisola rispetto ai campionati esteri. Con il Barone (che il 15 gennaio è stato insignito del titolo di “Cavaliere dell’Ordine al merito della Repubblica”) abbiamo chiacchierato nel corso della due giorni a seguito della Webb Ellis Cup, evento che ha seguito da vicino in qualità di Brand Ambassador Land Rover, sponsor della competizione iridata e del Trophy Tour. Ne è nata una lunga intervista, con molti spunti ed argomenti toccati.
Chi solleverà la Coppa che stiamo portando in giro per l’Italia?
Gli All Blacks hanno grandissime possibilità, anche se l’Inghilterra sta preparando un Mondiale importante, cercando di creare un giocatore che assomigli a Wilkinson, che sia incisivo e decisivo al momento giusto. La finale sarà una partita di scherma, e sei obbligato ad essere cinico, freddo e a volte anche egoista. Serve il giocatore che faccia la scelta giusta al momento giusto.
Perché gli All Blacks partono sempre da favoriti?
Agli ultimi Mondiali sono riusciti ad avere 30 giocatori su cui contare e tutti e 30 erano pronti e hanno dato il centro per cento. Non hanno mai avuto un solo giocatore di riferimento, basta che guardi cosa è successo con le quattro aperture. Il rugby è uno sport di squadra, e non è l’individuo che te la fa vincere. Può anche accadere, ma dietro c’è il lavoro di un’intera squadra. All’occorrenza hanno anche avuto bisogno di giocatori più giovani e puntato sulla globalità di squadra. Forse anche noi dovremmo iniziare a pensare così.
In che senso?
Dovremmo forse dare maggiore possibilità a tutti, senza levare niente e denigrare nessuno. Per alzare livello squadra dobbiamo in parte ridimensionare i suoi componenti, a favore della crescita del gruppo.
Nel passato da certe tue dichiarazioni si sono sollevati polveroni…
Ho dichiarato delle cose che sono state prese sul personale ma la mia volontà è quella di dare una smossa al terreno, per rinvigorirlo. Non era mia intenzione attaccare il singolo, solo esprimere delle considerazioni con finalità esclusivamente costruttive. Mettere in discussione certi ruoli chiave non significa attaccare i singoli, serve a tenere alta la tensione sportiva tra giocatori e per inserire i giovani nell’alto livello internazionale. Nel momento in cui un ci sono infortuni e situazioni di difficoltà, il giovane deve essere pronto ad andare in campo e fare bene. E in quel momento al più “anziano” qualcosa dentro si muove, raccoglie nuovi stimoli, e questo fa bene a tutto il gruppo. Tutto qui, nulla di personale.
Troppo poco spazio ai giovani?
Ma non è nemmeno una questione anagrafica, è una questione di possibilità. Sono partito anch’io dalla panchina. Mi arrabbiavo, certo, ma così avevo più fame e voglia di dimostrare il mio valore. E poi andavo in campo. Il giovane deve sbagliare, ha l’obbligo di sbagliare. Questa è la prerogativa. E se un giovane sbaglia non deve essere attaccato o messo in discussione. In questo sport, più che in altri, si cresce sbagliando.
Cosa deve avere un giovane per diventare un grande giocatore?
Deve avere personalità, prendere decisioni nei momenti topici della partita. E le deve prendere da solo, senza essere stimolato da altri. Poi certo, il giocatore di maggiore esperienza indica la via giusta, ma l’istinto è la benzina della squadra. E così riduci la distanza con i migliori.
Come possiamo diminuire questa distanza?
Già pochi anni fa era più corta, nel 2013 abbiamo disputato un gran Sei Nazioni. Oggi si dà spesso la colpa allo staff, ma è sbagliato. Vero che il coach conta, ma deve essere messo nelle condizioni giuste, anche di provare. E non bisogna mai smettere di avere stimoli, giovani o “anziani” che sia.
Si pensava che con la Celtic qualcosa sarebbe cambiato…
Treviso poteva essere una squadra in grado di costruire qualcosa di importante e ora è nella stessa situazione delle Zebre. C’è qualcosa che non funziona, è evidente. E per chi ha giocato ad alto livello da professionista fa male vedere squadre italiane che non riescono a fare punti.
Se oggi ricominciassi la tua carriera affacciandoti al mondo pro, che faresti?
Sicuramente andrei all’estero. La Federazione tratta il rugby in modo amatoriale, ma questo sport è diventato una professione e devi dare alle persone che la fanno la possibilità di guadagnare di più. Invece no, l’italiano è sottopagato e allo straniero fai il contratto pesante. Ricordo che non abbiamo la pensione e lo scenario post carriera a volte è molto triste.
Come vedi il campionato Eccellenza?
Abbandonato a se stesso. La Federazione ha scelto di sostenere spese grosse per altri campionati ma così l’Eccellenza non crescerà mai. Bisogna investire, renderlo un campionato importante, aiutare i club. Guarda in Francia…
Il paragone è quantomeno azzardato…
La distanza è enorme, vero, ma in Francia hanno scelto di investire massicciamente sul campionato e i risultati sono arrivati. Vero che hanno preso molti stranieri, ma hanno anche tutti i nazionali. La Federazione ha investito sui club, è diventato il campionato più duro e tutti comprano i diritti tv per seguirlo.
Cosa ti piace di più di Premiership e Top14?
Una cosa fondamentale: il giocatore non è nelle condizioni di poter dire che ha un problema. E quindi o dà il massimo o resta fuori.
Hai mai pensato ad un ruolo tecnico in Federazione?
A chi non farebbe piacere fare qualcosa per chi ti ha dato tanto negli anni? Sono andato dal Presidente Gavazzi, ma evidentemente non sono stato reputato all’altezza. Sono molto contento per gli ex compagni che sono rimasti, come Troncon, Vaccari, De Carli, Checchinato, del resto il piacere per rimanere in un mondo che conosci è naturale. Comunque ho molti impegni che mi danno tanta soddisfazione.
Cosa cambieresti di questa Federazione?
In questi giorni c’è la Webb Ellis Cup in giro per l’Italia, e quanti lo sanno? Il giro del trofeo, fiaccola olimpica a parte, è una novità assoluta, ma pare che a nessuno interessi. Gli organizzatori ci stanno dando lustro e rispetto, noi non lo ricambiamo del tutto. Minimo prendevo le scuole e il minirugby e li portavo in ogni tappa a vedere la coppa e fare un po’ di promozione.
E il rugby dalle tue parti come sta?
Il Sud non vede una partita della Nazionale dal 1918. Ad ogni tornata di Test Match salta sempre fuori il nome di Palermo o Bari, ma evidentemente ci accontentiamo di essere tra le possibili scelte. Al sud la gente è affamata di rugby, ma manca l’offerta.
Un ultima domanda. Hai un ricordo sulla tua esperienza alla Rugby World Cup?
E’ il torneo in cui vivi il rugby all’ennesima potenza, apprezzando ciò che gli altri paesi riescono a fare. Più che un ricordo specifico, la cosa bella è averli vissuti dentro e fuori dal campo assieme a tanti amici.
Di Roberto Avesani
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