Marco Rivaro affronta uno dei temi più dibattuti delle ultime settimane. E la valanga di mete dell’ultima giornata non cambia le cose
Il Sei Nazioni 2015 è stato un torneo ricco di spunti e, come sempre, molto combattuto. L’ ultima giornata in particolare ha finalmente dimostrato la vera bellezza del rugby giocato a viso aperto, con atleti che non avevano paura di muovere la palla in ogni parte del campo e tante, tantissime mete. Vedere finalmente le squadre che riscoprivano la voglia di attaccare è stato un grandissimo piacere ma non va dimenticato che lo spettacolo al quale ci eravamo abituati nelle giornate precedenti era stato assai diverso: il motivo per il quale si sono viste tante segnature è stato infatti dovuto al fatto che le tre compagini più in forma del torneo (Irlanda, Inghilterra e Galles) hanno incontrato avversari decisamente inferiori (e, tristemente nel caso dell’Italia, poco motivati) e che le partite erano “drogate” dal bisogno che avevano le contendenti al titolo di segnare più punti possibili.
Quando invece si sono visti incontri tra squadre che si equivalgono e dove in palio c’era “solo” la vittoria, il tipo di rugby è stato assai diverso e la paura è che al Mondiale torneremo ad un gioco conservativo. Come ha fatto notare un giornalista inglese, nella sua ultima giornata il Sei Nazioni ha ricordato un impiegato giapponese stakanovista che dopo una lunga giornata di lavoro si è bevuto svariate birre ed è finito a ballare sui tavoli sino a tarda notte. Ma si può esser certi che la mattina dopo sarà il primo in ufficio e la cravatta sarà ben annodata sul collo…
Ma andiamo per gradi. Il nostro amato sport è cambiato molto dall’avvento del professionismo nel 1995 ma il livello di ulteriore crescita evidenziata dalla Coppa del Mondo 2011 è impressionante: il ritmo, la precisione nell’esecuzione (di calci, di offloads ma anche di strategie di gioco) e la fisicità hanno raggiunto livelli mai visti prima. Indubbiamente il nostro sport sta continuando ad evolvere ma non sempre nella direzione migliore: il gioco spesso è più noioso e, come dice anche Steve Hansen, si segnano sempre meno mete (a meno che il nostro amato impiegatino giapponese non sia a ballare sui tavoli), la tattica al piede è diventata invasiva ed il numero e la criticità degli infortuni continuano ad aumentare.
Il problema principale nasce dalla troppa enfasi della fase difensiva: ormai l’organizzazione di quest’ultima è diventata così sofisticata che gran parte dello spazio giocabile viene coperta dalla “muraglia di placcatori” e questo ha cambiato drasticamente il gioco: non si vedono più differenti filosofie di pensiero – come ad esempio era un tempo il “rugby champagne” francese – ma una generalizzata omogenizzazione negli stili di attacco.
Le uniche differenze interpretative – piu che “scuole” vere e proprie – che si sono evidenziate nel Sei Nazioni di quest’anno sono infatti quella “ignorante” di ispirazione gallese (ma che ha seguito anche la Francia con minori fortune) che si basa su ball carriers che rompono la difesa letteralmente correndo contro l’avversario invece di tentare di evitarlo e quella più tecnica di ispirazione irlandese, seguita anche dalla Scozia che però non ha i giocatori che le permettano di essere efficace, che invece fa uno sforzo maggiore a metter uomini nello spazio, mantiene un ritmo molto elevato e varia i suoi attacchi con un gran uso del gioco al piede.
L’enfasi difensiva sta trasformando non solo le tecniche offensive ma anche la struttura dei giocatori: sempre più allenatori preferiscono infatti atleti più grossi rispetto a quelli più piccoli e talentuosi. Questo è dovuto al bisogno di “bestioni” che rompano le linee di difesa, ma più tali bestioni tentano di rompere la trincea, più placcatori indomiti (a volte mi verrebbe da dire quasi pazzi) li intercettano con placcaggi devastanti: lo scontro fisico ha raggiunto livelli impensati sino a pochi anni orsono (in questo Sei Nazioni si sono già visti giocatori andare ben oltre i 30 placcaggi a partita): l’accento è ormai sulla pura fisicità a discapito di quelle doti cristalline che sono la ricerca dello spazio e la capacità di battere l’avversario con la velocità piuttosto che con i chili.
Il numero e la magnitudo degli scontri stanno però iniziando a pesare anche sui fisici super muscolosi di questi gladiatori moderni e il livello di infortuni gravi sta aumentando a dismisura. Si vede ormai quasi una concussion a partita (la nostra “cragnata”, equivalente ad un knock-out pugilistico) e alcuni studi hanno di recente rilevato che in alcuni vecchi rugbisti si sono riscontrati proprio i sintomi da Dementia Pugilistica.
Il Legislatore (World Rugby) deve fare qualcosa prima che il nostro sport perda appeal e venga considerate troppo pericoloso. Attenzione però, perché una soluzione (non a tutti i mali, ma comunque una buona soluzione) è molto semplice e non richiede lo stravolgimento del nostro amato sport. Vediamo di capire come: la grande enfasi difensiva è iniziata negli ultimi anni ’90 quando si iniziarono a copiare a le tecniche utilizzate nel Rugby League (l’Inghilterra di Woodward fu tra le prime a farlo e vinse la coppa del mondo 2003 grazie anche alla difesa. E ad un certo Jonny..).
La difesa da rugby a 13 richiede ad ogni giocatore di fare uno sforzo per tenere sempre la linea compatta: appena rialzato dopo un placcaggio deve correre a rischierarsi il più in fretta possible in modo da non lasciare buchi nella linea. Tale tecnica è relativamente semplice da insegnare ma richiede molta concentrazione e molta preparazione fisica. Piu il difensore è stanco, più i suoi tempi di reazione sono lunghi e la sua capacità di riallinearsi diminuisce.
Tipicamente i giocatori che ricoprono ruoli sfiancanti (prime line in primis) tendono a rallentare i tempi di reazione con il passare dei minuti e, solitamente, nella parte finale della partita arrivano in linea sempre più tardi aprendo le maglie della trincea e ponendo il fianco a giocatori più rapidi.
In una situazione normale negli ultimi 30 minuti di partita si dovrebbero finalmente iniziare ad aprire gli spazi e si dovrebbe vedere un piacevole “running rugby” ove gli atleti dotati di capacità di giocare (o far giocare – nel caso delle aperture) negli spazi farebbero finalmente la differenza. Se così fosse gli allenatori sarebbero più inclini ad utilizzare giocatori piccoli ma rapidi e/o dotati tecnicamente che cercherebbo di battere il difensore con visione e con velocità: il tipo di placcaggio diventerebbe probabilmente più laterale e meno deflagrante e le squadre avrebbero molto più incentivi a calciare meno e a far girare la palla al fine di segnare mete. Il gioco ne guadagnerebbe immensamente ed anche il pubblico si divertirebbe molto di più. Probabilmente si assisterebbe ad una diminuzione degli infortuni da impatto e i giocatori diverrebbero più leggeri in quanto il gioco richiederebbe una preparazione piu aerobica. Ma non è cosi.
Il problema nacque quando si decise di passare da 2 sostituzioni alle attuali 7. Il Legislatore ai tempi non si accorse dell’impatto che nel tempo questa regola avrebbe comportato nel gioco: dopo i primi 40-50 minuti si possono adesso fare entrare addirittura 7 giocatori freschi che non solo rovinano la bellezza della battaglia da corpo a corpo ove il continuo logorio fisico determina la vittoria di una parte contro l’altra (la tenacia con la quale un forte pilone sottomette lentamente il suo avversario rimane uno dei piu alti esempi di drammaticità sportiva che si possano vedere su di un campo da rugby) ma che addirittura cambia completamente il naturale flow della gara.
Recenti statistiche hanno provato che i più forti placcatori arrivano a portare un placcaggio ogni 6 minuti quando entrano in campo dal primo minuto (il più prolifico è Robshaw che arriva a fare un placcaggio quasi ogni 5 minuti e mezzo). La cosa interessante è che gli stessi giocatori quando entrano nell ultima mezz’ora riescono a far scendere questa media addirittura a circa un placcaggio ogni quattro minuti e mezzo! Non solo i nuovi entrati non permettono che si aprano le maglie della difesa ma addirittura portano un ulteriore impeto alla difesa.
Il rugby non deve diventare solo uno scontro di corpi. Il pubblico (ma anche i puristi) non pagano il biglietto per vedere Caio cozzare contro Sempronio: si deve riscoprire uno sport fatto di fisicità ma anche di velocità, di forza ma anche di gesti da violinista, di difesa estrema ma anche di strategie di gioco gestite da menti sopraffine. La bilancia del rugby attuale tende ormai troppo verso la forza bruta.
E allora perché non tornare a 2 o 3 sostituzioni? Perche non far sì che i piloni (e tutti i giocatori in generale) si stanchino dopo 50-60 minuti di corse e placcaggi ed inizino a lasciare spazi nella difesa? Perché non permettere al rugby di riscoprire la sua voglia di far girare pallone, correre negli spazi e di segnare mete (come nell’ultima giornata di 6 Nazioni) ?
Quando chi scrive ancora giocava la norma era che il XV iniziale rimanesse in campo sino alla fine. Forse era un eccesso, ma oggi si è passati a un altro tipo di “estremismo”. Quante giovani carriere dovremmo inoltre veder interrotte da gravi infortuni o concussions prima che World Rugby si decida di fare quelcosa? La soluzione è semplice e ora è sotto gli occhi di tutti.
di Marco Rivaro*
Marco Rivaro, classe 1973 cresce rugbysticamente nel CUS Genova Rugby sotto la guida di Marco Bollesan. Dopo aver giocato per varie giovanili nazionali (partecipò alla vittoria dell Italia U19 contro l’Inghilterra U19 a Cambridge nel 1991) ha partecipato alla Student World Cup nel 1996 per poi passare nelle file del CARI Piacenza. Nel 1999 firmò un contratto part-time con i London Irish mentre seguiva un Master di Business and Management alla Westminster Business School. Dopo una serie di prove positive nella Premiership Inglese venne convocato da Brad Johnston nei 22 giocatori che affrontarono la Scozia nel primo Sei Nazioni della storia, presenza che gli fece guadagnare una chiamata dall’Università di Cambridge che gli propose una borsa di studio per giocare contro Oxford.
La decisione di tornare a studiare per una terza laurea (e di abbandonare lo sport professionistico) compromise la sua esperienza in nazionale: 4 caps in tutto, sua ultima presenza a Twickenham contro l’Inghilterra nel 2001. Ha rappresentato due volte Cambridge University nel Varsity Match, rimanendo ad oggi l’unico “Blue” espresso dal rugby Italiano diventando Man of the Match nella sfida del 2001.
Nel settembre 2002 firmò per Viadana e a dicembre 2002 rappresentò l ‘Italia nel 7s World Series a Dubai prima di appendere gli scarpini al chiodo per seguire una carriera nella City di Londra dove vive tuttora.
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