Le dimensioni di un evento che dall’87 a oggi è cresciuto esponenzialmente: come è cambiato il rugby in 28 anni di RWC
Sette edizioni disputate, 281 partite iridate giocate e 14.523 punti realizzati. 25 squadre con almeno una partecipazione, otto semifinaliste, cinque finaliste e quattro diverse vincitrici. Ma la Rugby World Cup, la massima competizione rugbistica al mondo, è molto di più. Dietro a questi numeri c’è un evento che, nonostante la sua breve storia, si è imposto nel panorama delle manifestazioni sportive e che a settembre si prepara al grande ritorno in Inghilterra, proprio dove la tradizione fissa il luogo di nascita del rugby. Dalla prima edizione del 1987 il Torneo ha conosciuto una crescita impressionante in termini numerici e le cifre nel corso degli anni si sono ingigantite al punto che la Rugby World Cup è oggi il terzo evento sportivo per impatto globale, dietro a Olimpiadi estive e Mondiali di calcio. Come è stata possibile una simile crescita, in neanche trent’anni di vita e in appena sette edizioni?
Una scrittura formale datata 1969 e firmata della International Rugby Board, il massimo organismo nel mondo del rugby, stabiliva che “non si sarebbe mai approvata l’organizzazione di competizioni in cui le squadre partecipanti fossero rappresentanti delle singole federazioni”. Tenendo conto che istituzionalmente il rugby è nato nella seconda metà dell’Ottocento, fino a più o meno l’altro ieri l’idea di un Mondiale di rugby non solo era lontana, ma espressamente vietata. Per fortuna le cose sono andate diversamente. La federazione australiana e neozelandese, separatamente, si misero al lavoro per presentare all’IRB due dossier sull’opportunità di organizzare una competizione iridata. I due report avevano richiesto circa due anni di lavoro, ma ne valse la pensa. Il primo dicembre 1984 le due proposte vennero sottoposte all’International Rugby Board e, pochi mesi più tardi, nel maggio 1985, si arrivò alla votazione decisiva circa la futura organizzazione di una Coppa del Mondo di rugby. Vinsero i sì per 6 a 2 (Nuova Zelanda, Sudafrica, Inghilterra, Francia, Galles e Australia favorevoli, Irlanda e Scozia contrarie). Due anni più tardi, esattamente il 22 maggio 1987 in Nuova Zelanda, prese ufficialmente il via la prima edizione della Rugby World Cup. Fu un successo? Sì. Di che dimensioni? Inimmaginabili.
Il primo boom la Coppa del Mondo l’ha conosciuto a cavallo tra la prima e la seconda edizione, organizzata in Gran Bretagna nel 1991. Da un Mondiale all’altro l’indotto complessivo generato dal Torneo è aumento di quasi l’800% passando dai 4,1 milioni di euro del 1987 agli oltre 32,4 milioni del 1991 generando un profitto netto quattro volte superiore. Per quanto riguarda la popolarità della competizione, la Rugby World Cup è da subito entrata nel cuore del pubblico e in appena due edizioni il numero di spettatori allo stadio è raddoppiato, così come quello di chi ha seguito l’evento davanti a uno schermo televisivo.
E proprio il dato relativo alla copertura televisiva della manifestazione è forse quello che più, e meglio, testimonia il successo che i Mondiali hanno riscosso. Se nel 1987 le 32 partite furono trasmesse in 17 paesi, con un’audience complessiva di 300 milioni di telespettatori, quattro anni più tardi saranno 107 i paesi a mandare in onda l’evento raggiungendo un pubblico di 1,75 miliardi di persone. A parità di incontri, le ore di trasmissione dedicate alla RWC sono aumentate da 103 a 1100 crescendo di ben dieci volte.
Organizzare un evento in Gran Bretagna, rispetto alla Nuova Zelanda, presenta molte più opportunità per ovvi motivi geografici; un bacino di pubblico assai più vasto e nessun problema di fuso orario; queste circostanze favorevoli e una macchina organizzativa perfetta spiegano il successo di quella edizione. La Rugby World Cup 1991 è stata la più grande manifestazione sportiva mai organizzata nel Regno Unito sino ad allora. L’Europa intera si accorse delle enormi potenzialità del Torneo. Se ne accorsero anche gli organizzatori dell’International Rugby Board che nel 1991 strapparono alla BBC un contratto da 9,6 milioni di euro per la messa in onda di 24 delle 32 partite totali. Anche quattro anni prima la BBC si era assicurata i diritti dell’evento, pagandoli però circa sette volte meno (1,4 milioni di euro). Gli investitori fiutarono le enormi opportunità offerte da una simile cassa di risonanza e gli sponsor investirono cifre dieci volte superiori rispetto a quattro anni prima. Non è una forzatura affermare che se la Rugby World Cup è arrivata negli anni così in alto, molto è dovuto alla spinta della seconda edizione più ancora che della prima.
Un impulso ulteriore è arrivato nel 1999, quando cambiò il format della competizione. Il Torneo venne allargato a quattro nuove squadre, per un totale di 20 partecipanti e di conseguenza il numero di partite aumentò da 32 a 41. Nel 2003 fu introdotta la formula tuttora adottata, il complesso format del 1999 (che comprendeva anche un turno di play off) venne rivisto e, a parità di squadre partecipanti, i match divennero 48. Aumentare il numero di partite in programma significa far crescere automaticamente tutti i dati fin qui considerati. Ciò vale anche e soprattutto per quanto riguarda il broadcasting. Più squadre e più partite vuol dire più paesi collegati, più ore di trasmissione e maggiore audience complessiva. In altri termini, più nazioni a cui vendere i diritti e royalties più care. Vien da sé che più crescono le dimensioni di un evento sportivo e più aumenta la sua popolarità, più i media devono dare copertura, extra programmazione dei match, anche in termini di approfondimento. E non è un caso che proprio l’edizione del 1999, organizzata in Gran Bretagna, registrerà una crescita impressionante per quanto riguarda ore di trasmissione, indotto complessivo e profitto netto.
Per infrangere ogni record bisognerà aspettare otto anni, attraversare la Manica e arrivare alla Rugby World Cup 2007 in Francia. L’indotto complessivo generato da quella Coppa del Mondo è stato calcolato in 228 milioni di euro, con un utile di 170 milioni. Il profitto ricavato dalla vendita dei diritti televisivi ha toccato quota 113 milioni di euro, per un totale di 8.500 ore di trasmissione, tremila in più rispetto al 2003. Il numero complessivo di spettatori presenti allo stadio è stato di 2,2 milioni di unità, a cui si aggiungono i 4,2 miliardi di persone che hanno seguito le 48 partite iridate davanti alla TV. Erano passati solamente vent’anni dal 1987 e la Rugby World Cup era già salita sul podio nella classifica delle manifestazioni sportive unidisciplinari per nazioni con più spettatori di sempre, dopo i Mondiali di calcio del 2006 e quelli del 2002.
Va fatto rilevare che, per i motivi già evidenziati, la Coppa del Mondo organizzata nel 2011 in Nuova Zelanda ha fatto registrare dei dati in controtendenza. E il discorso può essere allargato anche all’edizione del 2003 in Australia, un paese, ma soprattutto un mercato, più lontano e meno appetibile rispetto a quello europeo.
Ma arriviamo ai giorni nostri. Per la Rugby World Cup 2015 le previsioni dal punto di vista economico sono da primato, con una stima di 190 milioni di euro di profitto, mentre il dato sugli spettatori allo stadio e davanti agli schermi dovrebbe attestarsi attorno alle cifre del 2007. Quest’ultimo dato ci aiuta a capire in quale ottica è stata operata la scelta di organizzare il Mondiale 2019 in Giappone. Una scelta che mira a praticare nuove strade, ad aprire le porte a nuove platee di appassionati, a farsi largo e ad affermarsi in un mercato che offre innumerevoli opportunità a livello commerciale.
Parallelamente alla crescita economica e mediatica della Coppa del Mondo, si è poi registrato un cambiamento sportivo nel rugby in generale che ha interessato sia il gioco dal punto di vista tecnico sia i giocatori da quello fisico. A ogni appuntamento iridato le squadre misurano e valutano il lavoro svolto negli ultimi quattro anni, mentre le candidate per la vittoria, con il loro modo di giocare, danno indicazioni importanti sulle linee di evoluzione tecnico-tattiche. A proposito di cambiamenti, dal 1987 al 2003 i minuti di gioco effettivo sono passati da 22 a 44 e ciò ha costretto a un radicale ripensamento delle metodologie di allenamento dei rugbisti e in generale del loro stile di vita. Gli staff si sono allargati fino a comprendere allenatori dedicati alle singole fasi di gioco, preparatori atletici e mentali, nutrizionisti e cuochi professionisti esperti in alimentazione sportiva. Le fila delle équipe al seguito delle squadre, nel susseguirsi degli appuntamenti iridati, si sono via via ingrandite. Circa le abitudini alimentari, bastano pochi numeri per dire quanto esse siano cambiate a seguito della “trasformazione” dei giocatori di rugby in atleti. Una ricerca condotta nel 2007 in Francia ha evidenziato che rispetto a vent’anni prima il consumo di cibo e acqua da parte di un giocatore di rugby internazionale era aumentato rispettivamente del 20% e del 400%, mentre quello di alcol si era drasticamente ridotto del 70%. Non solo, nel 2007 il peso medio era cresciuto di quasi 13 chili rispetto al 1987, ma con una percentuale nettamente inferiore di massa grassa e superiore di massa muscolare.
La responsabilità di partecipare a un evento di enorme portata come la Coppa del Mondo ha progressivamente cambiato nei giocatori il modo di considerarsi dal punto di vista professionale. Queste le parole del tallonatore inglese Bryan Moore, che ha disputato le prime tre edizioni dei Mondiali: “Quando la World Cup è cominciata, abbiano iniziato a vederci come mai ci eravamo visti prima, ovvero veri e propri uomini di sport […] Da quando è cominciata la World Cup, siamo diventati atleti”.
Quando l’attenzione alla preparazione fisica ha raggiunto livelli molto elevati, ci si è accorti di un’altra componente che non andava trascurata, ma allenata e preparata alla giusta maniera: l’equilibrio emotivo. Con l’aumento della visibilità, dell’attenzione mediatica e soprattutto delle aspettative in termini di prestazione, i giocatori sono stati progressivamente sottoposti a stress e pressioni sempre maggiori e per gestirli nella maniera corretta è divenuta sempre più importante la preparazione a livello mentale. Ed è per questo che il Sudafrica, giusto per fare un esempio, volerà a Londra con uno psicologo professionista nel proprio staff.
Per concludere, l’avvento della Rugby World Cup ha trasformato per sempre e a 360° il rugby. Ha cambiato il modo di viverlo dentro il campo, con giocatori sempre più grossi e veloci, ma anche fuori, grazie a una fruizione sempre più capillare ed estesa. Impossibile domandarsi quali limiti possa avere una competizione che in neanche trent’anni ha conosciuto una simile crescita. Per avere delle indicazioni in tal senso bisognerà aspettare l’edizione giapponese del 2019. Solo allora sapremo quanto fertili sono i terreni fuori dai confini tradizionali di Ovalia.
Di Roberto Avesani
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