Mezzo secolo di sfide, fatti e parole: intervista a Giancarlo Dondi

Nel fine settimana si è fatto un gran parlare di lui. Venerdì ha concesso a OnRugby una lunga intervista. Eccola

ph. Sebastiano Pessina

ph. Sebastiano Pessina

Tra meno di una settimana, domenica prossima per l’esattezza, le candeline sulla sua torta saranno 80. Giancarlo Dondi è un uomo che in vita sua ha ricevuto applausi e critiche ma il cui ruolo centrale nella storia del rugby italiano è innegabile. C’è chi sottolinea che ha avuto la fortuna di governare il nostro movimento in un momento in cui di soldi ce n’erano davvero tanti e trovare grossi sponsor non era impresa impossibile, ma è altrettanto vero che le capacità politiche e diplomatiche dell’uomo sono indubitabili.
In questo ultimo fine settimana si è fatto un gran parlare di lui per alcune sue dichiarazioni che hanno dato vita a molte discussioni e polemiche e che poi sono state puntualizzate. Noi lo avevamo intervistato a Parma venerdì pomeriggio, solo qualche ora prima dell’ormai famosa conferenza di Piazzola sul Brenta. Ecco cosa ci ha detto.

 

Il 19 aprile compie 80 anni, una vita intera passata con l’ovale in mano. E’ possibile definirla in poche parole?
Tra rugby giocato e non sono più di 50 anni, durante i quali le regole sono cambiate ma i principi dentro e fuori dal campo sono rimasti. Ho la responsabilità di aver portato avanti un progetto che sembrava insormontabile ma che è andato a buon fine. Pensare che l’Italia potesse entrare tra le grandi del rugby sembrava una pazzia, anche negli anni Ottanta. Certo, abbiamo cercato di valutare i rischi, di fare cose ambiziose ma possibili, volando ma cercando sempre di avere una base morbida su cui cadere. Nella vita bisogna sempre portare avanti delle sfide. A suo modo, anche portare gli All Blacks a San Siro lo fu.

 

Quali le tappe fondamentali?
E’ stato anzitutto necessario convincere tecnici, giocatori e dirigenti che fosse possibile raggiungere questo traguardo. C’era il rischio delle disfatte, e ce ne sono state, eppure in punta di piedi siamo entrati nel grande rugby. Grenoble, le vittorie con l’Irlanda, la vittoria con la Scozia… Abbiamo scelto di puntare sulla locomotiva, sulla Nazionale, questo sì. Ma in questo modo siamo finiti sotto la lente di tutto il mondo, che ha capito la nostra potenzialità anche a livello economico. Siamo entrati nel Sei Nazioni al momento giusto, oggi ci sarebbero più difficoltà.

 

Quanto è cambiato il rugby in questi anni e in questi passaggi?
Noi pensavamo da dilettanti, e il rugby era di chi lo giocava. Quando poi lo sport diventa mediatico e porta pubblico, non è più di chi lo pratica ma del movimento che c’è dietro. La volontà era di cambiare rotta, facendo cose mirate e proporzionali alle energie a disposizione.

 

La sensazione è che dopo i primi anni 2000 il movimento abbia rallentato, e le difficoltà odierne arrivino proprio da lì. E’ d’accordo?
Non siamo cresciuti come avremmo voluto, questo sì. C’è ancora un divario, siamo su un’altalena. Ci illudiamo di essere arrivati all’ultimo scalino e poi ricadiamo in giù. La sensazione è di esserci e poi manca sempre qualcosa, come i tre punti contro la Scozia ai Mondiali 2007. Allora eravamo ottavi nel ranking, passare ai quarti sarebbe stato il coronamento di un lungo percorso.

 

La nostra posizione nel ranking conferma una cosa: è più facile arrivare ottavi che restarci…
Però noi siamo da poco nel grande rugby. Forse ci siamo illusi che fosse tutto più facile, a cominciare dalla prima storica vittoria all’esordio nel Sei Nazioni contro la Scozia. Per rimanere in alto servono organizzazione e lavoro.

 

Una crescita, eccome, c’è stata a livello di praticanti. Poi però la qualità non ha seguito la quantità…
Un programma si valuta dopo un arco di tempo definito. Noi abbiamo cambiato programmi troppo spesso, senza aspettare di vedere l’esito finale. E questo è un difetto tipicamente italiano. A livello internazionale sono più lineari, hanno linee d’azione e programmi di base che vengono portati avanti con costanza. Noi troppo spesso cambiamo direzione.

 

Quindi per il Progetto Accademie bisognerà aspettare?
Le Accademie erano un passo necessario per far crescere i nostri migliori giovani e per sopperire alla riduzione dei giocatori stranieri che ci eravamo imposti e avere così linfa nuova per il campionato. Siamo partiti con una, poi con altre tre, ora siamo dieci e si punta ad aumentarle. La strada è giusta ma sicuramente ci dobbiamo chiedere se abbiamo oggi tanti tecnici e giocatori di qualità per fare tutto ciò.

 

Molti stanno puntando sul Seven, ma anche in questo caso servono competenze specifiche e non “dirottate” dal quindici…
E’ uno sport spettacolare, facile da comprendere e semplice. Potrebbe essere una grande opportunità, basta pensare a quanto ci stanno investendo Federazioni diciamo meno grandi. Ma servono giocatori e tecnici ad hoc, sono altre caratteristiche. Non è certo prendere sette giocatori di quindici e metterli in campo. Poi tutto dipenderà se sfonderà o meno alle Olimpiadi.

 

A proposito di Rio e data la sua presenza nel Board, come vede le nuove regole sull’eleggibilità?
C’è una minima intenzione di cambiare, ma sarà dura perché Australia e Nuova Zelanda stanno vincendo molto grazie al rifornimento dato dalle isole.

 

E da membro del Board, invece, come ha vissuto la querelle Italia sì-Italia no al Sei Nazioni? Siamo ancora il membro debole?
Per loro all’inizio eravamo poco affidabili. Ora le cose sono cambiate, ma chiaro, stare in quell’esecutivo da Federazione diciamo con meno peso comporta delle precise tempistiche. Ci sono momenti in cui chiedere e altri in cui no, senza dimenticare che comunque vi è parità di trattamento. Bisogna saper dosare le proprie richieste. Certo che essere quindicesimi nel ranking del campo e tra i primi dieci in quello politico complica tutto. Quando si vince è tutto più facile, e la vittoria con la Scozia ad Edimburgo ha certamente aiutato.

 

Aiutato sì, ma non salvato un torneo deludente e che ha messo in luce un problema già noto: la mancanza di un’apertura completa e di un calciatore affidabile.
Il problema è che per tanti anni abbiamo cercato il clone di Dominguez, che non esiste. Dovevamo cercare un dieci con altre caratteristiche, anche perché il gioco cambia. Poi sai, nel rugby non si improvvisa niente, tanto meno in quel ruolo. Hugo Porta me l’ha detto per molti anni: serve allenamento e calciatori non si nasce. Dominguez era costante, ricordo ancora la sequenza di calci che provava in allenamento. Certi gesti non sono una dote naturale ma frutto di ore e ore di lavoro sul campo.

 

Di allenatori ne ha visti tanti. Coste durante il suo periodo da coach redasse cinque dispense (realtà italiana e mondiale, difesa, sostegno, avvio al gioco e metodologia di lavoro) e le fece distribuire a tutti gli allenatori di club. Servirebbe all’Italia una figura così, un po’ coach un po’ Director of Rugby?
Il Vero coordinatore fu Villepreux. Coste era un vulcano, e aveva bisogno di una persona ordinata al suo fianco. Ogni giorno pensava a qualcosa di innovativo. Lui ha anticipato un tipo di gioco moderno. Poi quando ha perso il controllo sui giocatori è saltato tutto.

 

Di che allenatore avrebbe allora bisogno la nostra Nazionale?
Uno alla Coste non andrebbe bene, perché era un tecnico federale tuttofare che allenava tutto. Oggi con l’attività che c’è l’allenatore della Nazionale non può fare il tecnico federale. E non credo serva nemmeno un Director of Rugby che coordini tutto, quella figura la vedo meglio in un club. Poi certo, che l’allenatore della Nazionale si interessi alle Accademie è importante, ma che si occupi in modo più capillare di tutto il movimento non credo possa essere la strada giusta.

 

E l’Eccellenza come sta?
Con l’ingresso dei giovani dalle Accademie qualcosa sta cambiando. Poi tieni conto che il livello del nostro campionato era superiore quando le squadre erano imbottite di stranieri, provenienti da Argentina, Sudafrica… Sono certamente serviti e hanno fatto bene al nostro rugby, e chi dice il contrario, ma era quasi diventato un movimento troppo italo-argentino.

 

I problemi sono molti, lei li ha vissuti non solo da diretto interessato ma da Presidente quindi responsabile ultimo. Cosa si rimprovera?
Per necessità ho dovuto demandare molto della parte tecnica. Io essendo stato team Manager della Nazionale venivo dalla parte tecnica, e questo mi è gravato. Diciamo che non la trascurerei più così tanto.

 

Non delegherebbe la parte tecnica o la delegherebbe a persone diverse? In quindici anni non sono cambiati i risultati, ma nemmeno gli uomini…
Delegherei lo stesso, assolutamente, ma forse a persone con caratteristiche diverse. Si sarebbe potuto cambiare, ho dato troppa fiducia e troppa poca responsabilità. Forse sono stato troppo buono. Sono molto critico e questo aspetto lo riconosco. Poi però se mi volto indietro e vedo dov’era il rugby italiano venti anni fa e dove è adesso, qualche risultato concreto l’abbiamo ottenuto. E dall’estero ce lo riconoscono…

 

Più che in Italia?
Probabilmente sì. Siamo stati un caso unico, questo ci è sempre stato riconosciuto, e dall’estero viene il maggiore riconoscimento. Poi certo c’è da lavorare sodo, con programmi chiari e non annebbiati. Altrimenti tutto si ferma, in campo e non solo…

 

Già, la sensazione è che la “luna di miele” sia finita anche a livello economico. La Federazione per anni è riuscita a vendere e a far appassionare ad uno sport sostanzialmente perdente, puntando sui valori e non sui risultati. E questo va riconosciuto
Ho sempre pensato che il rugby dovesse diventare un prodotto vendibile e che dovesse avere visibilità. Per essere vendibile deve avere un valore intrinseco. Su questo ho improntato molte scelte, anche quando si è trattato di decidere tra i soldi di un’emittente e la visibilità di un’altra. La visibilità induce altre entrate. Ora l’immagine è un po’ sbiadita, ma prima c’è stato un periodo in cui il rugby era diventato uno sport di moda.

 

E le mode passano…
Passano se non vi è più speranza. Noi siamo riusciti fino ad un certo momento a far sperare che da domani sarebbe cambiato, che da domani avremmo incominciato a vincere anche noi, e la gente un po’ si illudeva per qualche vittoria, un po’ era contenta perché la squadra entusiasmava, lottava, coinvolgeva il pubblico. Però certe partite, come il secondo tempo contro il Galles o la sconfitta contro la Francia, fanno male. Lì crolla anche la speranza, e finisce la moda.

 

L’anno prossimo ci saranno le elezioni. Riappoggerebbe il Presidente Gavazzi come fatto la scorsa tornata?
Gavazzi è stato eletto ed è il mio Presidente. Se dimostrerà di essere un buon Presidente lo riappoggerò, altrimenti se riterrò che poteva fare meglio prenderò le mie decisioni. Non ne faccio certo un discorso di persone, ma di contenuti. Ha fatto cose buone e cose meno buone, ma ha tutto il diritto di dimostrare ciò che intende fare. Lo appoggiai per il programma, perché migliorasse quanto fatto in precedenza dando continuità.

 

Capitolo Zebre. Resteranno a Parma?
Credo di sì, anche perché è stato fatto un grande lavoro per coinvolgere la città e il territorio. La struttura è adeguata.

 

Vedremo mai una franchigia a Roma
Credo che non siamo abbastanza maturi per le grandi città. Più che a Roma vedrei bene Milano, ma il Milan degli scudetti non aveva più di 400 spettatori a partita.

 

Come vorrebbe essere ricordato dal rugby italiano
Per quanto ho fatto. Ho provato ad accontentare tutti ma è impossibile. Ma se mi volto indietro, vedo che qualcosa abbiamo ottenuto.

Di Roberto Avesani 

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